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DiAnnamaria Palumbo

Limiti all’assegnazione di mansioni inferiori nel pubblico impiego: il caso dell’Infermiere adibito a mansioni di OSS. Cassazione Civile, Sez. Lavoro, n. 12128/2025.

La flessibilità organizzativa è un’esigenza sentita tanto nel settore privato quanto nel pubblico impiego. Tuttavia, la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle per le quali è stato assunto incontra limiti precisi, volti a tutelarne la professionalità e la dignità. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro (la n. 12128, depositata l’8 maggio 2025), offre importanti chiarimenti riguardo all’assegnazione di mansioni inferiori nel pubblico impiego privatizzato, analizzando specificamente il caso di un infermiere adibito a compiti propri dell’Operatore Sociosanitario (OSS).

Il contesto normativo e giurisprudenziale

Nel pubblico impiego privatizzato, il rapporto di lavoro è disciplinato, seppur con specificità, da principi analoghi a quelli del lavoro privato. Permane tuttavia una rilevanza dell’interesse pubblico sotteso all’esercizio dell’attività, che impone al lavoratore un dovere di leale collaborazione. È in questo contesto che la giurisprudenza ammette la possibilità di assegnare il lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle di inquadramento.

Tale possibilità, tuttavia, non è illimitata. La Suprema Corte ha da tempo individuato una serie di condizioni stringenti affinché l’adibizione a mansioni inferiori sia considerata legittima:

1. Le mansioni inferiori non devono essere completamente estranee alla professionalità del lavoratore. Nel caso specifico, le attività tipiche dell’OSS (legate alla cura della persona) non sono ritenute del tutto estranee alla professionalità dell’infermiere, poiché la cura della persona è un tratto comune ad entrambe.

2. Deve sussistere un’obiettiva esigenza, organizzativa, operativa o di sicurezza, del datore di lavoro pubblico. Tale esigenza deve essere concreta e non basata su scelte estemporanee.

3. La richiesta di svolgere tali mansioni inferiori deve avvenire in via marginale rispetto alle attività qualificanti dell’inquadramento professionale del prestatore. Per “marginale” si intende di scarso e limitato rilievo quantitativo rispetto alle mansioni di effettiva pertinenza.

4. Alternativamente, qualora la consistenza quantitativa delle attività di livello inferiore sia più ampia e non sia marginale, lo svolgimento di mansioni inferiori deve essere meramente occasionale.

È fondamentale che, anche in presenza di mansioni inferiori, il lavoratore continui a svolgere in modo prevalente e assorbente le attività proprie della sua qualifica.

La Cassazione sottolinea che il ricorso sistematico e non marginale a mansioni inferiori viola di per sé il diritto del lavoratore al rispetto della propria professionalità, anche se viene rispettato il parametro della prevalenza nello svolgimento delle attività proprie dell’inquadramento. Un uso non accessorio o non limitato nel tempo delle mansioni inferiori lede la professionalità e l’immagine lavorativa del dipendente.

Il caso esaminato dalla Cassazione

La sentenza n. 12128/2025 trae origine dal ricorso di una ASL contro la decisione della Corte d’Appello di L’Aquila. La Corte d’Appello aveva ritenuto illegittima l’adibizione di un’infermiera ad attività proprie degli OSS, condannando l’azienda al risarcimento del danno alla dignità professionale e all’immagine lavorativa.

La Corte d’Appello aveva accertato, sulla base dell’istruttoria testimoniale, che l’adibizione alle mansioni inferiori (quali trasporto malati, riordino letti, risposta campanelli, cura igiene pazienti, cambio pannoloni, gestione padelle) era stata “costante e sistematica” e aveva riguardato “buona parte della giornata lavorativa”, e non marginale o sporadica. Pur emergendo che gli infermieri svolgessero prevalentemente la loro attività propria, il carattere non marginale e non occasionale dell’assegnazione alle mansioni OSS era considerato illegittimo.

L’ASL ricorreva in Cassazione, sostenendo, tra le altre cose, che l’infermiera svolgeva in maniera prevalente le proprie mansioni e che le attività di OSS non erano estranee alla professionalità dell’infermiere, e che la richiesta di tali compiti avveniva in caso di carenza di personale OSS. Lamentava inoltre che la Corte d’Appello non avesse adeguatamente accertato l’effettivo svolgimento “sporadico e occasionale” delle mansioni inferiori.

La decisione della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’ASL, confermando la decisione della Corte d’Appello.

La Corte ha ribadito che l’adibizione degli infermieri ad attività proprie degli OSS non è a priori illegittima, trovando fondamento nei doveri di flessibilità e leale collaborazione. Tuttavia, ha confermato che tale possibilità è subordinata a precise condizioni.

Richiamando i propri precedenti, la Cassazione ha riaffermato che la richiesta di mansioni inferiori deve avvenire “incidentalmente o marginalmente”. Se la marginalità non ricorre, e la consistenza delle attività inferiori è più ampia, è necessario che lo svolgimento di tali mansioni sia meramente occasionale. Ha specificato che il ricorso sistematico e non marginale alle mansioni inferiori viola in sé il diritto alla professionalità del lavoratore, anche se quest’ultimo continua a svolgere prevalentemente le proprie mansioni qualificate.

Nel caso specifico, la Cassazione ha ritenuto che la Corte d’Appello avesse correttamente applicato questi principi, accertando in fatto che l’adibizione alle mansioni OSS non era stata marginale o occasionale, bensì “costante e sistematica” e “per buona parte della giornata lavorativa”.

Quanto al risarcimento del danno, la Corte ha confermato che la Corte d’Appello aveva correttamente individuato gli elementi da cui desumere il pregiudizio alla dignità professionale e all’immagine lavorativa (come la lunga durata dello svolgimento delle mansioni inferiori, la loro natura manuale, e lo svolgimento in presenza dei pazienti). Tali elementi hanno costituito una base presuntiva non implausibile per la liquidazione equitativa del danno. Le allegazioni sul pregiudizio subito all’immagine e alla dignità professionale erano, del resto, presenti.

Conclusioni e principio di diritto

La sentenza n. 12128/2025 consolida l’orientamento giurisprudenziale sui limiti del demansionamento nel pubblico impiego. La Cassazione ha ribadito il seguente principio:

“nel pubblico impiego privatizzato il lavoratore, venendo in rilievo il suo dovere di leale collaborazione nella tutela dell’interesse pubblico sotteso all’esercizio dell’attività, può essere adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle di assegnazione, ma ciò a condizione che tali mansioni non siano completamente estranee alla sua professionalità, che ricorra una obiettiva esigenza, organizzativa o di sicurezza, del datore di lavoro e che inoltre la richiesta di tali mansioni inferiori avvenga in via marginale rispetto alle attività qualificanti dell’inquadramento professionale del prestatore o che, quando tale marginalità non ricorra, fermo lo svolgimento prevalente delle menzionate attività qualificanti, lo svolgimento di mansioni inferiori sia meramente occasionale”.

Questa pronuncia evidenzia come, nonostante la peculiarità del pubblico impiego e l’importanza dell’interesse pubblico, la tutela della professionalità del lavoratore rimanga un valore centrale. L’assegnazione a mansioni inferiori è consentita solo entro limiti ben definiti di proporzionalità, occasionalità o marginalità, la cui violazione può comportare il diritto del lavoratore al risarcimento del danno.

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DiAnnamaria Palumbo

Licenziamento del lavoratore disabile: l’onere della prova degli “accomodamenti ragionevoli” grava sul datore di lavoro. Cassazione, 09/05/2025, n. 12270.

La gestione del rapporto di lavoro con dipendenti affetti da disabilità presenta particolari complessità e richiede un’attenzione specifica da parte del datore di lavoro, soprattutto in caso di sopravvenuta inidoneità alle mansioni. Un recente pronunciamento della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro (sentenza n. 12270 depositata il 9 maggio 2025), ribadisce un principio fondamentale: in caso di licenziamento di un lavoratore portatore di handicap, il datore di lavoro ha l’onere di dimostrare di aver compiuto ogni sforzo ragionevole per evitare il recesso.

Il contesto normativo: dovere di accomodamento ragionevole

La normativa italiana, in linea con il diritto dell’Unione Europea e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, impone al datore di lavoro l’obbligo di adottare “accomodamenti ragionevoli” per consentire al lavoratore con disabilità di continuare a svolgere un’attività lavorativa. La nozione di “handicap” o “disabilità” secondo la giurisprudenza comunitaria, richiamata dalla Cassazione, è ampia. Include una condizione patologica, anche se curabile, che comporti una limitazione duratura (cioè, senza prospettiva ben delimitata di superamento nel breve periodo), risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. La valutazione del carattere “duraturo” è un apprezzamento di fatto basato su elementi obiettivi e conoscenze mediche.

L’obbligo di “accomodamento ragionevole” va oltre il mero dovere di repechage tradizionale, inteso come la verifica della disponibilità di posizioni equivalenti o inferiori. Si tratta di un comportamento attivo volto alla ricerca di soluzioni organizzative appropriate che scongiurino il licenziamento. Queste soluzioni possono implicare modifiche dell’assetto organizzativo, a meno che ciò non comporti un onere sproporzionato.

Il caso esaminato dalla Cassazione

La sentenza in commento trae origine dal licenziamento di un lavoratore, intimato dalla società per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni di armatore ferroviario, certificata da accertamento medico. La società aveva comunicato l’impossibilità di adibire il dipendente a diverse mansioni, equivalenti o inferiori. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano annullato il licenziamento. La Corte d’Appello, in particolare, aveva ritenuto che la società avesse sì assolto l’onere del repechage tradizionale, ma non avesse dedotto né provato di aver adottato o anche solo ricercato gli “accomodamenti ragionevoli”. La società si era limitata a escludere la presenza di posizioni libere utili in relazione alle limitazioni del lavoratore. Inoltre, la Corte d’Appello aveva considerato che la sopravvenuta inidoneità parziale del lavoratore, accertata dalla stessa società e posta a base del licenziamento, rientrava nella nozione comunitaria di handicap.

Le argomentazioni della società ricorrente in Cassazione

La società ha impugnato la decisione della Corte d’Appello con diversi motivi di ricorso. Tra i principali:

  • La Corte d’Appello avrebbe annullato il licenziamento per una ragione non dedotta dal lavoratore (l’applicazione della normativa a tutela dei disabili).
  • La disciplina a tutela dei portatori di handicap sarebbe stata applicata a un semplice caso di inidoneità sopravvenuta, senza la sussistenza di un vero e proprio “handicap” rilevante.
  • La Corte avrebbe errato nel ritenere che l’onere della prova degli “accomodamenti ragionevoli” gravi sul datore di lavoro. Si negava che tale prova spettasse al datore, sostenendo che incombesse sul lavoratore la prova del “fatto costitutivo”. Si lamentava inoltre che la Corte non avesse indicato quali accorgimenti il datore avrebbe dovuto adottare.
  • Vizi di motivazione e mancata ammissione di prove testimoniali ritenute decisive.

La decisione della Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della società, confermando la decisione della Corte d’Appello.

La Suprema Corte ha ritenuto:

  • Inammissibile il motivo relativo alla presunta violazione dell’art. 112 c.p.c. (corrispondenza tra chiesto e pronunciato). La questione dell’illegittimità del licenziamento basata sulla mancata adozione di accomodamenti ragionevoli era già stata la ragione della decisione di primo grado. Pertanto, la pretesa nullità della sentenza di primo grado doveva essere fatta valere come motivo specifico di appello. Non essendo stata specificamente dedotta in appello la nullità per ultra petita, si è formato un giudicato implicito interno.
  • Infondati i motivi relativi all’applicazione della disciplina sulla disabilità e all’onere della prova degli accomodamenti ragionevoli. La Corte ha ribadito l’orientamento consolidato secondo cui la nozione di handicap è quella ampia di derivazione comunitaria/convenzionale. I giudici di merito avevano correttamente ritenuto in fatto che la menomazione fisica del lavoratore, causa dell’inidoneità e del licenziamento, integrasse tale nozione di disabilità rilevante ai fini dell’applicazione della direttiva.
  • Confermato che grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adempiuto all’obbligo di “accomodamento”. Non è sufficiente limitarsi ad allegare e provare l’assenza di posti disponibili in un’ottica di repechage ordinario. Il datore deve allegare e provare di aver compiuto un “sforzo diligente ed esigibile” per trovare una soluzione organizzativa appropriata che scongiurasse il licenziamento. Tale onere può essere assolto provando “atti o operazioni strumentali rispetto all’avveramento dell’accomodamento ragionevole”, che dimostrino la diligenza del datore. Non spetta al lavoratore o al giudice individuare le possibili modifiche organizzative.
  • Infondati i motivi relativi ai vizi di motivazione e alla mancata ammissione delle prove. La Cassazione ha ritenuto la motivazione della Corte d’Appello ben percepibile e conforme ai canoni richiesti. La mancata ammissione di prove testimoniali o la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi sono sindacabili in Cassazione solo entro limiti molto rigorosi. Nel caso specifico, non è stato dimostrato che le prove richieste (su 17 capitoli eterogenei) fossero idonee a dimostrare con certezza (non mera probabilità) un esito diverso della lite. Inoltre, la mancata allegazione da parte della società di aver compiuto lo sforzo diligente per gli accomodamenti ragionevoli giustificava la mancata ammissione di prove al riguardo e la mancata attivazione dei poteri officiosi, poiché tali poteri presuppongono che i fatti rilevanti siano stati ritualmente introdotti nel processo.

Conclusioni

La sentenza n. 12270/2025 della Cassazione Lavoro non introduce principi nuovi, ma consolida e applica rigorosamente l’orientamento giurisprudenziale in materia di licenziamento del lavoratore disabile per sopravvenuta inidoneità. Ribadisce con forza che:

  • La nozione di disabilità rilevante ai fini della tutela antidiscriminatoria è ampia e conforme al diritto UE.
  • L’obbligo di adottare “accomodamenti ragionevoli” è un dovere positivo del datore di lavoro che va oltre il semplice repechage.
  • L’onere della prova di aver diligentemente ricercato e tentato di attuare tali accomodamenti ricade interamente sul datore di lavoro.
  • La semplice asserzione di non avere posizioni disponibili non è sufficiente; è necessario dimostrare uno sforzo concreto ed esigibile per trovare soluzioni organizzative alternative.

Questa pronuncia sottolinea l’importanza per i datori di lavoro di affrontare proattivamente e documentare ogni valutazione e tentativo di accomodamento organizzativo prima di procedere al licenziamento di un lavoratore divenuto inidoneo alle mansioni a causa di una condizione riconducibile alla nozione ampia di disabilità. Per i lavoratori, rappresenta una conferma della tutela esistente e dell’onere probatorio in capo all’azienda.


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DiAnnamaria Palumbo

Straining: l’importanza del contesto specifico nella valutazione dello stress lavoro-correlato

Il tema dello stress lavoro-correlato è sempre più centrale nel diritto del lavoro e nella tutela della salute psicofisica del lavoratore. Accanto al più noto “mobbing”, che presuppone una pluralità di condotte vessatorie con intento persecutorio, si è affermata la figura dello “straining”. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro (sentenza n. 12518 depositata il 12 maggio 2025), offre un utile chiarimento sulla valutazione di quest’ultima fattispecie, sottolineando l’importanza fondamentale del contesto specifico.

Cosa distingue lo straining dal mobbing?

La giurisprudenza ha delineato le differenze tra le due figure:

  • Il Mobbing richiede un elemento oggettivo (una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli nell’ambito del rapporto di lavoro) e un elemento soggettivo (l’intento persecutorio nei confronti della vittima). La condotta datoriale è illecita anche se i singoli atti sarebbero astrattamente legittimi, proprio in ragione della loro connotazione intenzionale e continuativa.
  • Lo Straining, invece, si configura in presenza di comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente. La caratteristica distintiva è che, a differenza del mobbing, anche se mancano la pluralità delle azioni vessatorie o esse sono limitate nel numero, la condotta può comunque integrare straining. Addirittura, lo straining può derivare anche dal caso in cui il datore di lavoro, anche colposamente, consenta il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori.

Un orientamento consolidato, richiamato anche nella decisione in esame, riconosce che una condotta vessatoria di tipo episodico può integrare la fattispecie di straining. Ciò avviene allorché il lavoratore subisca una modificazione negativa e permanente della propria situazione lavorativa, e ciò può verificarsi anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio. Questa responsabilità datoriale si fonda sull’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e psicofisica del lavoratore.

Il caso esaminato dalla Cassazione

La pronuncia trae origine dalla vicenda di un lavoratore che aveva agito in giudizio nei confronti dell’ente presso cui prestava servizio, lamentando tra l’altro un risarcimento danni per “mobbing/straining” legato a un prospettato declassamento dalla ottava alla settima qualifica funzionale. Dopo alterne vicende nei gradi di merito, in cui il Tribunale aveva rigettato la domanda di risarcimento e la Corte d’Appello aveva confermato tale decisione, la questione è giunta all’esame della Suprema Corte. La Corte d’Appello, pur avendo riconosciuto la prospettazione del lavoratore in termini di straining (in quanto nulla era stato allegato circa il mobbing), aveva rigettato la domanda ritenendo che nella fattispecie non potesse ravvisarsi alcun comportamento stressogeno scientemente attuato nei confronti del dipendente che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto, potesse far ravvisare un’ipotesi di straining.

La valutazione fondamentale del contesto specifico

La Cassazione, pur accogliendo il ricorso del lavoratore su altri aspetti (relativi alla giurisdizione sulla domanda di declassamento), ha rigettato il motivo di ricorso relativo al risarcimento danni per straining. Nel motivare questa decisione, la Corte ha richiamato i principi sopra esposti sullo straining. Ha quindi sottolineato che la Corte d’Appello, nel rigettare la domanda, ha fatto corretta applicazione di tali principi. In particolare, la Suprema Corte ha evidenziato come la Corte d’Appello avesse valutato la condotta dell’Amministrazione e, con un accertamento di fatto (insindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato), avesse ritenuto che la circostanza addotta dal lavoratore fosse inidonea ex se ad integrare gli elementi costitutivi della fattispecie di straining.

Il punto centrale, confermato dalla Cassazione, è che nelle ipotesi di presunto straining da parte del datore di lavoro è necessario considerare sempre caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale e altre circostanze del caso concreto. La Corte d’Appello, nella sua valutazione di merito, non aveva ravvisato nella specifica condotta allegata dal lavoratore un comportamento stressogeno scientemente attuato che, considerato l’insieme degli elementi (caratteristiche, gravità, impatto sul lavoratore, contesto), potesse configurare straining. E la Cassazione ha ritenuto che questa valutazione di fatto fosse stata correttamente effettuata sulla base dei principi giuridici applicabili.

Conclusioni

La sentenza n. 12518/2025 della Cassazione, pur non innovando sui principi generali in materia di straining, ne ribadisce l’applicazione pratica, evidenziando l’importanza fondamentale di una valutazione concreta e contestualizzata delle condotte lamentate. Affinché si possa configurare lo straining, non basta lamentare una generica situazione di stress o un singolo episodio spiacevole. È indispensabile allegare e provare la sussistenza di comportamenti specifici del datore di lavoro (o da esso colposamente consentiti) che siano scientemente stressogeni (o oggettivamente tali per le loro caratteristiche) e che abbiano determinato una modificazione negativa e permanente della situazione lavorativa o un danno alla salute del lavoratore, valutando attentamente la gravità, l’impatto personale e professionale, e tutte le altre circostanze del caso concreto.

DiAnnamaria Palumbo

Diritto all’indennità sostitutiva delle ferie non godute per i docenti a termine: un chiarimento fondamentale dalla Suprema Corte (Cass. civ., sez. lav., ord., 7 maggio 2025, n. 11968)

Una recente pronuncia della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, interviene su una questione di frequente dibattito nel mondo della scuola: il diritto del personale docente con contratto a tempo determinato a percepire un’indennità economica per le ferie maturate e non godute al termine del rapporto di lavoro. Il caso esaminato riguardava insegnanti con contratto a termine fino al 30 giugno dell’anno scolastico 2012/2013, che avevano convenuto in giudizio il Ministero dell’Istruzione per ottenere il pagamento delle ferie non fruite.


La controversia aveva visto esiti differenti nei gradi di merito. Il Tribunale aveva accolto il ricorso dei docenti, riconoscendo il loro diritto all’indennità. La Corte d’appello, invece, aveva accolto l’appello del Ministero, negando tale diritto. La questione è giunta quindi all’esame della Corte di Cassazione.
Il quadro normativo di riferimento per il periodo in questione (anno scolastico 2012/2013) include sia le disposizioni del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) del Comparto Scuola relativo al quadriennio 2006/2009, sia la normativa di legge intervenuta nel corso del 2012. Il CCNL stabiliva che per il personale docente a tempo determinato, qualora la durata del rapporto non consentisse la fruizione delle ferie, le stesse sarebbero state liquidate al termine del contratto. Precisava inoltre che la fruizione delle ferie nei periodi di sospensione delle lezioni durante l’anno scolastico non fosse obbligatoria per i docenti a termine; pertanto, le ferie non godute avrebbero dovuto essere liquidate al momento della cessazione del rapporto. Questo a differenza del personale di ruolo, che è tenuto a fruire le ferie nei periodi di sospensione delle attività didattiche e non può essere messo in ferie d’ufficio durante i periodi di lezione, ma non ha diritto alla monetizzazione se non per cause non imputabili.


Successivamente, il legislatore è intervenuto con l’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 135 del 2012, stabilendo un principio generale per il personale delle pubbliche amministrazioni: le ferie devono essere obbligatoriamente fruite e in nessun caso danno luogo a trattamenti economici sostitutivi, neanche in caso di cessazione del rapporto. Eventuali disposizioni normative o contrattuali più favorevoli cessavano di avere applicazione. La Corte Costituzionale, pronunciandosi su questa norma (sentenza n. 95 del 2016), ha chiarito che il divieto di monetizzazione non si applica quando il lavoratore non abbia potuto godere delle ferie per malattia o altra causa a lui non imputabile.


Nel medesimo anno, la legge n. 228 del 2012 ha dettato una disciplina speciale per il personale della scuola, introducendo regole per la fruizione delle ferie da parte dei docenti (sia a tempo indeterminato che a termine) durante i giorni di sospensione delle lezioni. Ha altresì aggiunto una precisazione all’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012, stabilendo che la disciplina sul divieto di monetizzazione non si applica al personale docente a termine (con supplenza breve, saltuaria o fino al termine delle lezioni/attività didattiche), limitatamente alla differenza tra i giorni di ferie spettanti e quelli in cui tale personale ha potuto effettivamente fruire delle ferie. Le nuove norme di legge sulla scuola non potevano essere derogate dai contratti collettivi, e le clausole contrattuali contrastanti sono state disapplicate a partire dal 1° settembre 2013.


In sintesi, vi è stato un periodo in cui la disciplina generale sul divieto di monetizzazione sembrava applicarsi anche al personale scolastico a termine. Tuttavia, la legge n. 228 del 2012 ha reintrodotto, seppur in parte, la possibilità di liquidazione, e la disapplicazione delle norme contrattuali più favorevoli è avvenuta solo dal 1° settembre 2013. Questo significa che, almeno fino al 31 agosto 2013, la disciplina del CCNL che prevedeva la monetizzazione delle ferie non godute per i docenti a termine che non le avevano fruite nel periodo destinato alle lezioni, continuava ad avere efficacia.


Ma il punto fondamentale della decisione della Cassazione risiede nell’interpretazione della normativa interna alla luce del diritto dell’Unione Europea. L’art. 7 della direttiva 2003/88/CE garantisce il diritto alle ferie annuali retribuite. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con diverse sentenze del 6 novembre 2018, ha interpretato questa norma, affermando che si oppone a una normativa nazionale che preveda la perdita automatica del diritto alle ferie retribuite (e alla relativa indennità finanziaria) al termine del rapporto di lavoro per il solo fatto che il lavoratore non le abbia richieste, senza una previa verifica che il datore di lavoro lo abbia effettivamente messo in condizione di esercitare tale diritto attraverso un’adeguata informazione.


La Corte di Giustizia ha precisato che il datore di lavoro deve assicurarsi concretamente e in piena trasparenza che il lavoratore sia in grado di fruire delle ferie. Ciò include l’obbligo di invitarlo formalmente a farlo e di informarlo, in modo accurato e in tempo utile, del fatto che in mancanza le ferie andranno perse, al termine del periodo di riferimento o del rapporto di lavoro. L’onere della prova di aver adempiuto a questi obblighi informativi e di invito ricade sul datore di lavoro.


Alla luce di questi principi europei, la Cassazione ha stabilito che la normativa interna (inclusi l’art. 5, comma 8, d.l. n. 95/2012 e l’art. 1, comma 55, legge n. 228/2012) deve essere interpretata conformemente. Questo comporta un principio fondamentale: il docente a tempo determinato non perde il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie per il solo fatto di non averle chieste, se non dopo essere stato invitato dal datore di lavoro a goderne, con espresso avviso della perdita, in caso diverso, del diritto alle ferie e alla indennità sostitutiva.


Poiché la Corte d’appello non aveva verificato se l’amministrazione avesse adempiuto a questo onere probatorio a suo carico, la Suprema Corte ha accolto il ricorso dei docenti. La sentenza impugnata è stata cassata con rinvio alla Corte d’appello affinché decida la causa nel merito, applicando il principio di diritto stabilito.


In conclusione, la Corte di Cassazione ha confermato un orientamento a tutela del lavoratore, ribadendo che il diritto all’indennità per le ferie non godute non si perde automaticamente per il personale a termine, specialmente nel settore scolastico, a meno che il datore di lavoro non dimostri di aver offerto la concreta possibilità di fruirne e di aver adeguatamente informato il lavoratore sulle conseguenze del mancato godimento. Questo principio sottolinea l’importanza degli obblighi del datore di lavoro nel garantire l’effettivo godimento delle ferie retribuite, diritto fondamentale sancito anche dal diritto europeo.

DiAnnamaria Palumbo

La Carta del Docente: diritti affermati dalla giurisprudenza per docenti precari e personale educativo e possibili novità future per l’anno scolastico 2025/2026

La Carta del Docente, istituita dalla legge 107/2015, rappresenta uno strumento di fondamentale importanza per l’aggiornamento e la formazione professionale degli insegnanti, con un valore di 500 euro annui. Inizialmente, la sua applicazione era prevista solo per i docenti di ruolo delle scuole statali. Tuttavia, l’estensione di questo beneficio ai docenti non di ruolo (i precari) è stata oggetto di un significativo dibattito legale.

La giurisprudenza ha progressivamente ampliato l’ambito di applicazione della Carta, riconoscendo il diritto alla sua fruizione anche per i docenti con contratto a tempo determinato. Questo ampliamento si fonda principalmente sul principio di parità di trattamento, sancito dal diritto europeo (Direttiva 1999/70/CE) e dai principi costituzionali di non discriminazione (art. 3) e buon andamento della Pubblica Amministrazione (art. 97). La formazione e l’aggiornamento professionale sono infatti un diritto-dovere fondamentale che riguarda tutto il personale docente, a prescindere dalla tipologia contrattuale. Riconoscere il bonus solo ai docenti a tempo indeterminato comporta una evidente e ingiustificata disparità di trattamento, considerando l’omogeneità della prestazione lavorativa svolta e l’identità della finalità di formazione del personale docente.

Numerose pronunce giudiziarie hanno confermato questa interpretazione, come quelle dei Tribunali di Roma, Torino, Firenze, Napoli, Milano, Biella, Prato, Modena, Rimini, Trani, Termini Imerese, Palermo, Forlì, Bari, Foggia e Arezzo.

Il diritto alla Carta del Docente è stato riconosciuto in particolare per:

  • I docenti precari con incarichi di supplenza annuale fino al 31 agosto o al 30 giugno.
  • I supplenti con più contratti brevi e continuativi, quando l’accumulo di tali supplenze è considerato alla stregua di un contratto annuale, senza interruzioni significative.
  • Il diritto alla Carta spetta indipendentemente dal numero di ore settimanali di insegnamento assegnate (anche per spezzoni orari).

È stata riconosciuta la spettanza della Carta anche al personale educativo, nonostante il Ministero abbia tentato di escluderlo. La Corte di Cassazione ha rigettato tale tesi, affermando che il personale educativo rientra nell’ambito del personale docente inteso in senso lato, in quanto la funzione educativa partecipa al processo di formazione ed educazione degli allievi. Tale personale è incluso nell’area professionale del personale docente secondo il CCNL ed è soggetto a precisi oneri formativi. La Carta del Docente è considerata un beneficio economico (pur se atipico e non retribuzione accessoria né reddito imponibile), e spetta anche al personale educativo in ragione dell’espressa equiparazione normativa del trattamento economico di tale personale a quello dei docenti elementari. La difforme giurisprudenza amministrativa non si confronta con il chiaro disposto della contrattazione collettiva nazionale.

Per i docenti non di ruolo che non si sono visti riconoscere tempestivamente il beneficio, sono esperibili diverse azioni legali:

  • Se il docente è ancora “interno al sistema delle docenze scolastiche” (ossia iscritto nelle graduatorie, con incarico in corso, o transitato in ruolo), può agire per ottenere l’adempimento in forma specifica, chiedendo la condanna dell’Amministrazione alla corresponsione del bonus per il valore perduto. Tale azione si prescrive in 5 anni a decorrere dalla data in cui è sorto il diritto all’accredito (data del conferimento incarico o data ammissione registrazione sulla piattaforma).
  • Se l’insegnante è fuoriuscito dal sistema delle docenze scolastiche (per cessazione del servizio di ruolo o cancellazione dalle graduatorie), può esperire l’azione risarcitoria per omessa attribuzione della Carta. Questa azione, di natura contrattuale, si prescrive in 10 anni a decorrere dalla data di fuoriuscita dal sistema scolastico.

È importante sottolineare che l’insufficiente allocazione di bilancio da parte del Ministero non può impedire il riconoscimento di tali diritti. La garanzia dei diritti deve poter incidere sul bilancio, e non viceversa. Neanche le ragioni di bilancio possono giustificare la lesione di diritti fondamentali. La giurisdizione per queste controversie spetta al giudice ordinario.

Possibili novità future con la Legge di Bilancio 2025

Per l’anno scolastico 2025-2026, la Carta del Docente potrebbe essere estesa anche agli insegnanti con un contratto a tempo determinato. Questa sarebbe una delle novità che il governo intenderebbe introdurre con un emendamento presentato al disegno di legge di conversione del decreto legge n. 45 del 7 aprile 2025. Il testo di tale proposta prevederebbe che i criteri di assegnazione del bonus (attualmente fissato a 500 euro) non saranno fissi, ma saranno stabiliti ogni anno da un decreto congiunto del Ministero dell’Istruzione e del Merito e del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

In conclusione, mentre la giurisprudenza ha ampiamente riconosciuto e rafforzato il diritto dei docenti precari e del personale educativo alla Carta del Docente basandosi sui principi di parità di trattamento e sul carattere fondamentale dell’aggiornamento professionale, la situazione normativa è in potenziale evoluzione. Resta fondamentale per i docenti precari essere informati sui propri diritti già consolidati dalla giurisprudenza e sulle azioni legali a disposizione per ottenerne il riconoscimento, monitorando al contempo le future evoluzioni normative (come quella ipotizzata per il 2025-2026, se confermata).

DiAnnamaria Palumbo

Garante Privacy: illegittima la geolocalizzazione dei dipendenti in smart working

Nel contesto dell’era digitale, la protezione dei dati personali rappresenta una priorità assoluta per le aziende e le istituzioni. Il recente provvedimento del Garante per la Protezione dei Dati Personali, emesso il 13 marzo 2025, ha messo in luce una vicenda significativa che riguarda il trattamento dei dati dei dipendenti in modalità di lavoro agile. Questo caso, che coinvolge l’Azienda Regionale per lo Sviluppo dell’Agricoltura Calabrese (ARSAC), sottolinea la necessità di bilanciare l’uso delle tecnologie con il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori.

Il caso ARSAC: una lezione sull’uso della geolocalizzazione

L’indagine condotta dal Garante ha preso avvio a seguito di un reclamo presentato da una dipendente di ARSAC. La questione principale riguardava l’utilizzo dell’applicativo di gestione delle presenze “Time Relax”, che includeva una funzione di geolocalizzazione. Questo strumento, utilizzato per monitorare il luogo da cui i dipendenti svolgevano le loro attività in modalità agile, ha sollevato preoccupazioni in merito alla tutela della privacy e al rispetto della normativa vigente.

Secondo quanto emerso, ARSAC ha trattato i dati relativi alla posizione geografica dei propri dipendenti senza rispettare pienamente i principi di liceità, trasparenza e proporzionalità previsti dal Regolamento UE 2016/679 (GDPR). Inoltre, l’azienda ha utilizzato tali dati per avviare procedimenti disciplinari, una pratica giudicata non conforme sia alla normativa sulla protezione dei dati sia alla disciplina specifica del lavoro agile.

Le principali violazioni riscontrate

Il Garante ha evidenziato diverse criticità nel trattamento dei dati da parte di ARSAC:

  1. Assenza di una base giuridica adeguata: il trattamento dei dati di geolocalizzazione non è risultato conforme ai principi di liceità e limitazione delle finalità. L’utilizzo di tali dati per verificare il luogo di lavoro dei dipendenti è stato considerato una violazione della normativa vigente.
  2. Mancanza di trasparenza: ARSAC non ha fornito ai dipendenti un’informativa chiara e completa sul trattamento dei dati, come richiesto dall’art. 13 del GDPR.
  3. Inadeguatezza delle misure tecniche e organizzative: l’azienda non ha rispettato i principi di protezione dei dati fin dalla progettazione e per impostazione predefinita, né ha effettuato una valutazione d’impatto sulla protezione dei dati, obbligatoria in caso di trattamenti ad alto rischio.
  4. Interferenza nella vita privata: il monitoraggio della posizione geografica dei dipendenti è stato giudicato eccessivo e invasivo, comportando un’ingerenza non necessaria nella sfera privata.
  5. Utilizzo illecito dei dati per finalità disciplinari: l’uso dei dati di geolocalizzazione per avviare procedimenti disciplinari è stato ritenuto illegittimo, in quanto tali dati erano stati raccolti per finalità diverse.

Le sanzioni e le implicazioni per le aziende

A seguito delle violazioni riscontrate, il Garante ha inflitto a ARSAC una sanzione amministrativa pecuniaria di 50.000 euro. Tale importo è stato determinato considerando la gravità delle violazioni, il numero di dipendenti coinvolti e la durata del trattamento illecito.

Il provvedimento rappresenta un monito importante per tutte le organizzazioni, pubbliche e private, che devono garantire il rispetto della normativa sulla protezione dei dati personali, specialmente in contesti lavorativi. L’adozione di tecnologie avanzate, come i sistemi di geolocalizzazione, deve essere accompagnata da un’attenta valutazione dei rischi, da misure di sicurezza adeguate e da una trasparente comunicazione con i dipendenti.

Conclusioni

Il caso ARSAC sottolinea l’importanza di adottare un approccio responsabile e conforme alla normativa in materia di gestione dei dati personali sul luogo di lavoro. Le aziende devono essere consapevoli che ogni violazione può avere conseguenze significative non solo in termini economici, ma anche di reputazione.

Il provvedimento del Garante del 13 marzo 2025 invita tutte le organizzazioni a riflettere sull’importanza di bilanciare le esigenze organizzative con il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori. La trasparenza, la proporzionalità e la protezione dei dati devono essere al centro di ogni strategia aziendale che preveda l’uso di strumenti tecnologici.

DiAnnamaria Palumbo

Risarcimento del danno da perdita di chance e corretta gestione delle procedure concorsuali in ambito sanitario, Cass. Civ., Sez. Lav., 3 maggio 2025 n. 11636

La sentenza n. 11636 del 3 maggio 2025 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, rappresenta un’importante decisione in tema di risarcimento del danno da perdita di chance e della corretta gestione delle procedure concorsuali in ambito sanitario. La pronuncia, che ha confermato l’inammissibilità del ricorso proposto dal medico, offre spunti rilevanti in merito alla disciplina giuridica applicabile e alle modalità di valutazione delle richieste risarcitorie.

La vicenda trae origine dalla domanda di un medico dipendente dell’Azienda Sanitaria Locale di Benevento, volta a ottenere il risarcimento del danno per la perdita di opportunità di carriera derivante dal mancato espletamento di procedure concorsuali per incarichi dirigenziali. La Corte d’Appello di Napoli, confermando il rigetto della domanda già espresso in primo grado, aveva ritenuto non sussistenti né la prova delle concrete possibilità di ottenere un incarico dirigenziale né la dimostrazione del nesso causale tra il danno lamentato e il comportamento dell’ASL.

La Corte territoriale aveva inoltre sottolineato come le misure di contenimento della spesa sanitaria adottate dalla Regione Campania, attraverso delibere che limitavano il turnover e i nuovi incarichi, fossero un fattore determinante nella vicenda. La mancata partecipazione del ricorrente all’unico concorso attivato nel 2005 era stata considerata ulteriore elemento a supporto della decisione.

Ragioni della decisione

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del medico, articolato in tre motivi principali.

  1. Primo motivo:
    Il ricorrente aveva denunciato la violazione di norme giuridiche rilevanti in materia di selezione per incarichi dirigenziali, lamentando un’inversione dell’onere della prova da parte dei giudici d’appello. La Cassazione ha rigettato tale motivo, evidenziando come esso mirasse a ottenere una nuova valutazione dei fatti già esaminati nei precedenti gradi di giudizio, in violazione dei limiti del giudizio di legittimità.
  2. Secondo motivo:
    Il ricorrente aveva contestato l’omessa considerazione della documentazione allegata e la mancata pronuncia sulle richieste istruttorie. Anche su questo punto, la Corte ha dichiarato inammissibile la censura, rilevando che la Corte d’Appello si era espressa in modo chiaro sulle richieste istruttorie, considerandole generiche e non idonee a provare la domanda risarcitoria.
  3. Terzo motivo:
    Il dottore aveva infine denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo, ossia la perdita di chance. La Cassazione ha escluso tale vizio, richiamando il principio della “doppia conforme”, secondo cui non è ammissibile la censura di omesso esame di fatti decisivi quando le decisioni di primo e secondo grado siano basate sul medesimo iter logico-argomentativo.

La Corte di Cassazione ha confermato la correttezza delle decisioni di merito, dichiarando il ricorso inammissibile e condannando il ricorrente al pagamento delle spese legali. La pronuncia ribadisce che, in tema di risarcimento per perdita di chance, è necessario fornire una prova rigorosa non solo dell’esistenza di una concreta possibilità di ottenere l’incarico, ma anche del nesso causale tra il comportamento datoriale e il danno subito.

Questa sentenza offre un’importante chiarimento circa i presupposti per il riconoscimento del danno da perdita di chance nel contesto lavorativo. Essa sottolinea, altresì, la rilevanza della corretta gestione delle procedure concorsuali e la necessità di un’adeguata allegazione probatoria da parte del ricorrente per sostenere le proprie pretese risarcitorie.

DiAnnamaria Palumbo

Prescrizione dei crediti previdenziali, Cass. Civ. Sez. Lav., sentenza del 5 maggio 2025 n. 11690

La recente pronuncia della Corte di Cassazione, sentenza n. 11690 del 5 maggio 2025, ha affrontato una complessa controversia in materia di crediti contributivi e prescrizione, delineando importanti principi in ambito previdenziale. Il caso si è sviluppato a partire da una serie di intimazioni di pagamento emesse dall’agente della riscossione, impugnate da una società che ha contestato la legittimità delle pretese creditorie.

I precedenti gradi di giudizio

In primo grado, il Tribunale aveva respinto l’opposizione della società, dichiarando il difetto di legittimazione passiva dell’ente previdenziale. La Corte d’Appello, successivamente, aveva parzialmente accolto il ricorso della società, dichiarando prescritte alcune cartelle esattoriali, ma confermando per il resto le statuizioni di primo grado.

La società ha quindi proposto ricorso per cassazione, sollevando diversi motivi di doglianza, tra cui la questione relativa alla rilevanza delle istanze di rateizzazione come atti interruttivi della prescrizione.

I principali motivi del ricorso

Tra i motivi di ricorso presentati, i più significativi sono:

  1. L’interruzione della prescrizione tramite rateizzazione
    La società ricorrente ha contestato la decisione della Corte d’Appello, la quale aveva ritenuto che le istanze di dilazione del debito contributivo potessero interrompere la prescrizione, anche per crediti già prescritti.
  2. La mancata tempestiva produzione del fascicolo di parte avversaria
    È stata sollevata la questione della tardiva produzione del fascicolo dell’agente della riscossione in appello, che secondo la società non avrebbe dovuto essere considerato dal giudice di secondo grado.
  3. La prescrizione in ambito previdenziale come diritto indisponibile
    È stato sottolineato che, in materia previdenziale, la prescrizione già maturata è sottratta alla disponibilità delle parti, non potendo essere oggetto di rinuncia implicita attraverso istanze di rateizzazione.
  4. Regolazione delle spese processuali
    La società ha contestato la decisione di porre interamente a suo carico le spese di giudizio, nonostante un parziale accoglimento delle sue ragioni.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione si è pronunciata accogliendo il quarto e quinto motivo di ricorso, rigettando i primi tre e dichiarando assorbiti gli ultimi due. Le motivazioni principali della decisione sono le seguenti:

  • Rateizzazione e prescrizione
    La Corte ha ribadito che, in ambito previdenziale, la prescrizione già maturata ha efficacia estintiva del credito e non può essere rinunciata tramite atti impliciti come la richiesta di rateizzazione. Pertanto, la Corte d’Appello avrebbe erroneamente considerato tali istanze come rinuncia alla prescrizione già maturata.
  • Produzione documentale in appello
    La Cassazione ha confermato la correttezza del giudizio della Corte d’Appello in merito alla utilizzabilità del fascicolo di parte dell’agente della riscossione, ritenendo che non vi fosse stata violazione delle norme processuali.

Questa sentenza consolida alcuni importanti principi in materia di prescrizione dei crediti previdenziali, tra cui:

  1. Indisponibilità della prescrizione maturata
    La prescrizione in ambito previdenziale non può essere rinunciata dalle parti, neppure implicita o tacitamente, attraverso atti come la richiesta di rateizzazione del debito.
  2. Effetti della rateizzazione sui termini di prescrizione
    Le istanze di rateizzazione possono interrompere la prescrizione solo per crediti non ancora prescritti, ma non possono incidere su quelli per cui la prescrizione sia già intervenuta.
  3. Produzione documentale in appello
    I documenti prodotti tardivamente in appello possono essere utilizzati solo se già ritualmente presenti nel fascicolo di primo grado, come accertato dalla Corte d’Appello nel caso di specie.

La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d’Appello di Genova in diversa composizione, affinché riesamini il merito della controversia conformandosi ai principi espressi. La decisione rappresenta un importante punto di riferimento per la giurisprudenza in materia di prescrizione dei crediti previdenziali, chiarendo ulteriormente i limiti e le condizioni di applicabilità di tale istituto.

DiAnnamaria Palumbo

L’osservanza del minimale contributivo: Cassazione Civile, Sez. Lav., sentenza n. 9952 del 16 aprile 2025

La recente sentenza della Cassazione civile, sez. lavoro, del 16 aprile 2025, ha avuto come oggetto un caso rilevante in materia di contribuzione previdenziale e applicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL). La decisione affronta diversi temi di interesse per il diritto del lavoro, tra cui il rispetto del minimale contributivo, la rappresentatività dei sindacati e la qualificazione delle sanzioni civili in caso di violazioni contributive.

La controversia nasce dall’opposizione di una cooperativa a un verbale ispettivo redatto da INPS, INAIL e Ispettorato Territoriale del Lavoro. Il verbale contestava la mancata osservanza del minimale contributivo, basandosi sul fatto che la cooperativa avesse applicato un CCNL diverso da quello sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative per il settore della distribuzione commerciale. La Corte d’Appello di Torino, in parziale riforma della decisione di primo grado, aveva rigettato l’opposizione della cooperativa, confermando la validità delle pretese contributive e delle sanzioni civili.

La cooperativa ha impugnato la sentenza della Corte d’Appello con sette motivi di ricorso, tutti respinti dalla Corte di Cassazione.

Principali questioni giuridiche

1. Applicazione del CCNL e minimali contributivi

Uno dei punti centrali della sentenza riguarda l’applicazione del CCNL firmato dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. La Corte di Cassazione ha ribadito che il minimale contributivo è una materia indisponibile e inderogabile. Di conseguenza, l’accordo aziendale sottoscritto dalla cooperativa non poteva essere utilizzato per derogare in peius ai livelli retributivi previsti dal CCNL rappresentativo.

2. Contrattazione aziendale e art. 8 del D.L. n. 138/2011

La cooperativa aveva sostenuto che l’accordo aziendale fosse qualificabile come un “accordo di prossimità” ai sensi dell’art. 8 del D.L. n. 138/2011, ma la Corte ha escluso tale applicazione. La materia retributiva, in particolare per quanto riguarda il minimale contributivo, non rientra tra quelle derogabili con gli accordi di prossimità, essendo regolata da norme imperative.

3. Maggior rappresentatività sindacale

Un altro punto controverso riguardava la valutazione della rappresentatività dei sindacati firmatari del CCNL applicato dall’INPS. La Corte ha confermato che la rappresentatività può essere valutata sulla base di dati presuntivi, come il numero di iscritti a livello nazionale e le indicazioni fornite da circolari ministeriali.

4. Contestazioni sui conteggi contributivi

La cooperativa aveva contestato i conteggi riportati nel verbale ispettivo. Tuttavia, la Corte ha giudicato tardive e generiche tali contestazioni, evidenziando che la cooperativa avrebbe potuto articolare le proprie difese sin dal primo grado di giudizio.

5. Evasione vs. Omissione contributiva

La sentenza ha chiarito che, nel caso di specie, si configura un’evasione contributiva e non una mera omissione. Ciò è dovuto al fatto che le denunce presentate dalla cooperativa erano errate, riportando contribuzioni inferiori rispetto a quelle dovute. L’evasione contributiva implica una violazione più grave, che giustifica l’applicazione di sanzioni civili più gravose.

La decisione della Corte di Cassazione, in sostanza, ribadisce principi fondamentali in materia di previdenza sociale e contrattazione collettiva. In particolare:

  • Il minimale contributivo rappresenta un vincolo inderogabile, non modificabile da accordi aziendali.
  • La rappresentatività dei sindacati deve essere valutata comparativamente nell’ambito della categoria di riferimento.
  • Le contestazioni sui verbali ispettivi devono essere specifiche e tempestive, pena la loro irrilevanza in giudizio.
  • La distinzione tra evasione e omissione contributiva ha rilevanti implicazioni sul piano sanzionatorio.
DiAnnamaria Palumbo

Il concetto di orario di lavoro secondo la normativa europea e italiana: Cassazione civile, Sezione Lavoro, 23 aprile 2025, n.10648

Nel panorama giuridico e lavorativo, il tema della definizione di “orario di lavoro” rappresenta un argomento di grande importanza, soprattutto in presenza di situazioni particolari come i turni di reperibilità. Recentemente, una sentenza della Corte di Cassazione (Cass. civ., Sez. Lav., 23 aprile 2025, n.10648) ha affrontato questa tematica, ribadendo principi fondamentali derivanti dalla normativa dell’Unione Europea e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha più volte ribadito che le nozioni di “orario di lavoro” e “periodo di riposo” si escludono reciprocamente. Secondo la direttiva 2003/88/CE, l’orario di lavoro comprende qualsiasi periodo in cui il lavoratore è al servizio del datore di lavoro, a disposizione dello stesso e nello svolgimento delle proprie attività o funzioni. Questo principio è stato confermato in diverse sentenze, tra cui quelle relative ai casi Simap, Jaeger, Ville de Nivelles e Radiotelevizija Slovenija.

Un aspetto rilevante riguarda i periodi di reperibilità. Se, durante tali periodi, il lavoratore è obbligato a rimanere fisicamente presente sul luogo indicato dal datore di lavoro, il tempo trascorso deve essere considerato orario di lavoro. Anche in assenza di attività lavorativa effettiva, l’obbligo di permanenza limita significativamente la libertà del lavoratore di gestire il proprio tempo libero, trasformando di fatto tale periodo in orario lavorativo.

Il caso specifico e i principi di diritto

Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, il ricorrente ha lamentato di essere stato obbligato a effettuare turni di pernottamento presso il luogo di lavoro, senza ricevere una retribuzione adeguata per il tempo trascorso in regime di reperibilità. La Corte d’Appello aveva ritenuto applicabile l’articolo 57 del CCNL delle cooperative sociali, che prevede un’indennità fissa mensile per i servizi di reperibilità, escludendo tali periodi dal computo dell’orario di lavoro.

Tuttavia, la Corte di Cassazione ha accolto le ragioni del ricorrente, chiarendo che, alla luce della normativa europea e dell’articolo 36 della Costituzione italiana, i periodi di reperibilità notturna presso il luogo di lavoro devono essere considerati orario di lavoro. Questo riconoscimento implica che tali periodi debbano essere retribuiti in modo proporzionato e dignitoso, in coerenza con i principi costituzionali di sufficienza e proporzionalità della retribuzione.

La sentenza sottolinea, inoltre, che la modalità di retribuzione dei periodi di guardia rientra nell’ambito delle disposizioni di diritto nazionale o della contrattazione collettiva. Tuttavia, il giudice è tenuto a valutare, anche d’ufficio, se le previsioni contrattuali rispettano i criteri costituzionali e normativi in materia di retribuzione.

La decisione rappresenta un punto di riferimento importante per garantire una maggiore tutela dei lavoratori in situazioni di reperibilità. Essa ribadisce che l’applicazione delle norme europee e nazionali deve avvenire in modo da rispettare la dignità e i diritti dei lavoratori, evitando interpretazioni restrittive che possano comprimere le tutele previste.

La Corte ha rinviato il caso alla Corte d’Appello in diversa composizione per un nuovo esame della fattispecie, invitando a considerare i principi di diritto enunciati. Questo passaggio evidenzia l’importanza di una corretta applicazione delle normative collettive, che devono essere orientate a garantire retribuzioni adeguate e proporzionate.

In conclusione, questa sentenza rappresenta un passo avanti nel riconoscimento dei diritti dei lavoratori, ponendo l’accento sulla necessità di un’applicazione rigorosa e coerente delle normative europee e nazionali. Si tratta di un richiamo forte per i datori di lavoro e le parti sociali, affinché si impegnino a garantire condizioni di lavoro eque e rispettose della dignità umana.