LA SERENITA’ DELL’AMBIENTE DI LAVORO
L’obbligo del datore di mantenere la serenità dell’ambiente di lavoro, tra i doveri di prevenzione e…
La sentenza n. 7826 del 24 marzo 2025, emessa dalla Cassazione Civile Sez. Lavoro, affronta la relazione tra la tolleranza di condotte illegittime da parte del datore di lavoro e la responsabilità del lavoratore che le pone in essere. Il caso specifico riguardava il licenziamento di un dipendente sorpreso a fumare in una zona vietata, condotta che i giudici di merito avevano ritenuto giustificata in ragione della precedente tolleranza manifestata dall’azienda in situazioni analoghe.
Tuttavia, la Suprema Corte ha cassato tale decisione, ribadendo un principio di diritto fondamentale: la tolleranza di condotte illegittime non fa venire meno l’illiceità della condotta stessa. La mancata reazione da parte del soggetto deputato al controllo – in questo caso, il datore di lavoro – non può automaticamente configurare un’esclusione di responsabilità per il trasgressore.
Secondo la Cassazione, affinché si possa escludere la responsabilità del lavoratore, è necessario che ricorrano ulteriori elementi capaci di ingenerare nel trasgressore una convinzione incolpevole di liceità della condotta. In altre parole, il lavoratore deve essere stato indotto a credere, senza colpa, che il suo comportamento fosse legittimo. Solo in presenza di tali circostanze, non potrebbe essergli mosso neppure un addebito di negligenza.
Con questa decisione, la Corte ha chiarito che la tolleranza non può trasformarsi in una sorta di “sanatoria” delle condotte illecite, salvo che vi siano ragioni particolari e dimostrabili che giustifichino la convinzione di liceità da parte del lavoratore.
La sentenza n. 7641, emessa il 22 marzo 2025 dalla Corte di Cassazione, sezione Lavoro, affronta la questione della decadenza della potestà sanzionatoria dell’INPS per il mancato versamento delle ritenute previdenziali. La pronunciaconferma il rigetto del ricorso dell’INPS e chiarisce principi fondamentali applicabili ai procedimenti sanzionatori amministrativi.
La vicenda trae origine da due ordinanze-ingiunzione con cui l’INPS aveva irrogato sanzioni amministrative a Vi.An., per mancato versamento delle ritenute previdenziali in vari periodi tra ottobre 2015 e gennaio 2016. La Corte d’Appello di Torino, con sentenza del 28 settembre 2023, aveva confermato la pronuncia di primo grado, ritenendo maturata la decadenza dall’esercizio della potestà sanzionatoria dell’INPS. Tale decadenza era stata individuata sulla base del termine di cui all’art. 14, comma 2, della L. n. 689/1981, considerando come dies a quo la data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 8/2016 (6 febbraio 2016), che aveva parzialmente depenalizzato l’illecito.
L’INPS proponeva ricorso per cassazione, contestando tale interpretazione e sostenendo che il caso in esame dovesse essere disciplinato esclusivamente dagli artt. 8 e 9 del D.Lgs. n. 8/2016, senza applicazione della decadenza prevista dall’art. 14 della L. n. 689/1981. Vi.An., dal canto suo, resisteva con controricorso, mentre il Pubblico ministero depositava memoria.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’INPS, affermando che il termine di novanta giorni previsto dall’art. 9, comma 4, D.Lgs. n. 8/2016 per la notifica della violazione amministrativa al responsabile deve essere inteso come termine di decadenza. Tale interpretazione trova fondamento nel principio di legalità sancito dagli artt. 23 e 97 della Costituzione, nonché nel diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost.
La Corte ha chiarito che, in assenza di trasmissione degli atti da parte dell’autorità giudiziaria all’INPS, il dies a quo per il decorso del termine decadenziale deve essere individuato nella data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 8/2016 (6 febbraio 2016). Tale soluzione è giustificata dalla necessità di garantire la certezza giuridica e la tempestiva definizione della posizione dell’incolpato, evitando che l’inerzia dell’autorità giudiziaria possa pregiudicare il diritto alla difesa.
La Corte ha enunciato il seguente principio di diritto:
“Il termine di novanta giorni dalla ricezione degli atti dall’autorità giudiziaria, entro il quale, a norma dell’art. 9, comma 4, D.Lgs. n. 8/2016, l’INPS deve notificare al responsabile la violazione amministrativa concernente il mancato versamento delle ritenute previdenziali, parzialmente depenalizzata ai sensi dell’art. 3, comma 6, del medesimo decreto legislativo, è fissato a pena di decadenza dall’esercizio della potestà sanzionatoria e, in caso di mancata trasmissione degli atti da parte dell’autorità giudiziaria, decorre dal momento di entrata in vigore del D.Lgs. n. 8/2016 (6.2.2016), ove dal vaglio di merito risulti che, in concreto, l’accertamento delle violazioni non ha richiesto da parte dell’INPS alcuna attività istruttoria.”
La novità e complessità della questione trattata hanno giustificato la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
Con la sentenza n. 7846/2025, la Corte di Cassazione ha introdotto un importante principio di diritto per quanto riguarda l’accesso all’Ape sociale, ampliandone la platea dei beneficiari. Secondo quanto stabilito, il diritto all’Ape sociale non è limitato esclusivamente ai disoccupati che hanno usufruito dell’indennità di disoccupazione, ma include anche coloro che, pur essendo disoccupati, non hanno beneficiato di tale indennità perché non spettante, purché siano in possesso dei requisiti di anzianità e contributivi previsti dalla normativa.
L’Ape sociale, introdotta per favorire l’uscita anticipata dal mondo del lavoro di categorie meritevoli di tutela, ha finora richiesto, tra i suoi criteri di accesso, l’aver percepito un’indennità di disoccupazione. Tuttavia, la sentenza della Cassazione cambia radicalmente questo approccio. La Corte ha infatti riconosciuto che l’esclusione di chi, pur essendo disoccupato, non ha avuto accesso alla disoccupazione per motivi tecnici, rappresenta una disparità di trattamento ingiustificata rispetto ai principi di equità e tutela sociale.
Con questa nuova interpretazione, il diritto all’Ape sociale viene garantito anche a chi:
La Corte di Cassazione ha evidenziato che il principio cardine della normativa sull’Ape sociale è la tutela di categorie vulnerabili, favorendo un accesso anticipato alla pensione in situazioni di difficoltà socioeconomica. Pertanto, subordinare il diritto all’Ape sociale alla percezione dell’indennità di disoccupazione escluderebbe ingiustamente individui che, pur avendo vissuto situazioni di disoccupazione e precarietà, non hanno avuto la possibilità di beneficiare di tale indennità per ragioni indipendenti dalla loro volontà.
La decisione della Corte di Cassazione sottolinea l’importanza di una lettura estensiva delle norme sociali, in linea con i principi di giustizia ed equità. I lavoratori disoccupati, anche quelli esclusi dall’indennità di disoccupazione, potranno ora vedersi riconosciuto il diritto all’Ape sociale, aprendo la strada a una maggiore inclusione e protezione per le fasce più fragili della popolazione.
La tutela dei lavoratori che beneficiano dei permessi previsti dalla legge 104/1992 è stata recentemente oggetto di una significativa decisione della Corte di Cassazione (ord. 5611/2025), la quale ha affermato che la mancata comunicazione sull’utilizzo dei permessi 104 non può essere considerata equivalente a un’assenza ingiustificata, a meno che tale equiparazione non sia esplicitamente prevista dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) applicabile al rapporto di lavoro.
La legge 104/1992 è uno strumento fondamentale per garantire il diritto dei lavoratori a prendersi cura di familiari con disabilità, prevedendo permessi retribuiti che devono essere utilizzati nel rispetto delle normative vigenti. Tuttavia, il caso in esame solleva una questione rilevante: cosa accade quando il lavoratore non comunica preventivamente al datore di lavoro le ragioni dell’assenza legate ai permessi 104?
La Suprema Corte ha stabilito che l’omessa comunicazione da parte del dipendente non può automaticamente giustificare il licenziamento, trattandosi di un mero vizio formale e non di una violazione sostanziale. Di conseguenza, un recesso motivato esclusivamente da tale mancanza è da considerarsi illegittimo. Questa posizione si basa sull’importanza di bilanciare il diritto del lavoratore a beneficiare dei permessi previsti dalla legge con l’esigenza del datore di lavoro di mantenere la continuità organizzativa.
➡️ Una riflessione sul ruolo della procedura delle dimissioni di fatto
Il caso apre un interessante spunto di riflessione riguardo alla procedura delle dimissioni di fatto introdotta dal Collegato Lavoro. Cosa sarebbe successo se il datore di lavoro avesse scelto questa strada, dichiarando il lavoratore dimissionario in base al presunto comportamento omissivo? Questo interrogativo mette in luce l’importanza dell’intervento dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro (ITL), che avrebbe certamente esaminato la legittimità della procedura adottata.
In uno scenario simile, il lavoratore avrebbe potuto impugnare le dimissioni involontarie, dimostrando che l’assenza era giustificata dall’utilizzo dei permessi 104, sebbene non comunicata in modo tempestivo. Questo avrebbe potuto portare alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, con tutte le conseguenze economiche e giuridiche del caso.
La decisione della Corte di Cassazione costituisce un importante richiamo per i datori di lavoro, sottolineando l’importanza di operare con cautela e nel pieno rispetto delle normative prima di procedere con misure drastiche come il licenziamento. Parallelamente, rappresenta uno stimolo per i lavoratori a mantenere una comunicazione trasparente e tempestiva, indispensabile per prevenire incomprensioni e situazioni di conflitto.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7480/2025, ha affrontato la questione della validità della notifica del licenziamento disciplinare via PEC all’avvocato del lavoratore, nel caso in cui quest’ultimo abbia eletto il proprio domicilio presso il legale durante il procedimento disciplinare.
La controversia nasce dalla contestazione di un licenziamento disciplinare da parte di un lavoratore che, durante il procedimento disciplinare, aveva formalmente eletto domicilio presso il proprio avvocato. Al termine del procedimento, il datore di lavoro ha notificato il provvedimento di licenziamento tramite posta elettronica certificata (PEC) direttamente al legale del lavoratore.
Il lavoratore, contestando la legittimità della notifica, ha sostenuto che il licenziamento avrebbe dovuto essere comunicato personalmente a lui oppure con modalità diverse rispetto alla PEC inviata al suo avvocato. La questione è stata quindi sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione.
Con la sentenza n. 7480/2025, la Suprema Corte ha chiarito che la notifica del licenziamento disciplinare via PEC all’avvocato del lavoratore è da considerarsi pienamente legittima, a condizione che il lavoratore abbia esplicitamente eletto domicilio presso il legale durante il procedimento disciplinare.
Secondo la Corte, l’elezione del domicilio presso il proprio avvocato comporta l’assunzione di tutte le conseguenze legali relative alla ricezione di atti e comunicazioni inerenti al procedimento. Pertanto, il datore di lavoro che invia la comunicazione di licenziamento al domicilio eletto adempie correttamente all’obbligo di notifica.
La sentenza si fonda su due principi fondamentali:
• La libertà di elezione del domicilio: Il lavoratore ha il diritto di scegliere un domicilio per la ricezione di atti e comunicazioni, compreso quello presso il proprio avvocato. Tale scelta è vincolante per tutte le parti del procedimento.
• La validità della PEC come mezzo di comunicazione ufficiale: La PEC costituisce uno strumento legale e idoneo per la trasmissione di atti ufficiali, garantendo certezza giuridica e tracciabilità della comunicazione.
La decisione della Corte ribadisce la centralità del principio di correttezza nelle comunicazioni legali e sottolinea come l’elezione del domicilio presso un avvocato sia una scelta che comporta precisi obblighi e responsabilità. Il licenziamento disciplinare notificato via PEC all’avvocato del lavoratore, in presenza di un’esplicita elezione di domicilio, è dunque legittimo e conforme alle disposizioni di legge.
Il Tribunale di Mantova, con la sentenza n. 77 del 5 marzo 2025, ha riaffermato il diritto dei lavoratori con disabilità di accedere allo smart working, riconoscendolo come una misura essenziale per proteggere la salute e garantire pari opportunità nel mondo del lavoro.
La vicenda giudiziaria ha avuto origine dalla richiesta di un lavoratore disabile di poter svolgere le proprie mansioni in modalità smart working per almeno tre giorni alla settimana, una soluzione indispensabile per tutelare la sua salute, come dimostrato dalla documentazione medica fornita. Nonostante la chiarezza delle esigenze del dipendente, il datore di lavoro aveva inizialmente rigettato la proposta, giustificando il diniego con presunte necessità organizzative e contestando l’applicabilità del principio di “accomodamento ragionevole”. A suo avviso, le attività assegnate al dipendente non sarebbero state compatibili con il lavoro da remoto.
Il Tribunale di Mantova ha esaminato nel dettaglio la questione, valutando attentamente sia la documentazione medica presentata dal lavoratore sia le motivazioni avanzate dal datore di lavoro. Dopo un’analisi approfondita delle prove, il giudice ha riconosciuto che il diritto del dipendente a lavorare in modalità smart working era pienamente legittimo e necessario per salvaguardare la sua salute, garantendo al contempo un ambiente lavorativo equo e privo di discriminazioni. Con la sentenza, il tribunale ha dunque ordinato al datore di lavoro di consentire al dipendente di svolgere le proprie mansioni da remoto per almeno tre giorni a settimana.
Il principio di accomodamento ragionevole, previsto dalla normativa nazionale e internazionale, rappresenta uno strumento cruciale per eliminare le barriere che ostacolano l’accesso al lavoro per le persone con disabilità. Questo principio richiede che il datore di lavoro adotti misure adeguate e proporzionate alle necessità del lavoratore, salvo che tali interventi comportino un onere eccessivo per l’organizzazione.
In questa circostanza, il Tribunale ha evidenziato che il lavoro agile non rappresentava un ostacolo rilevante all’efficienza aziendale, bensì una scelta bilanciata che permetteva di tutelare il diritto del lavoratore disabile a essere pienamente incluso nella vita professionale.
La sentenza del Tribunale di Mantova si colloca in un contesto giuridico sempre più attento alla protezione dei diritti dei lavoratori fragili. Costituisce un importante punto di riferimento, sottolineando che lo smart working per le persone con disabilità non è semplicemente un beneficio concesso, ma una misura fondamentale di equità sociale e di valorizzazione della dignità personale.
Il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 581 del 10 febbraio 2025 (sez. lav.), ha affrontato una questione di grande rilevanza per il diritto del lavoro e per la tutela dei caregiver: il bilanciamento tra il diritto alla stabilità lavorativa previsto dall’art. 33, comma 5, della L. 104/1992 e la necessità di gestire situazioni di conflittualità ambientale sul posto di lavoro.
La normativa vigente tutela il lavoratore caregiver, ossia chi si occupa di un familiare con disabilità grave, stabilendo che non possa essere trasferito senza il suo consenso, salvo che vi siano motivazioni oggettive e dimostrate, differenti dalle comuni necessità organizzative aziendali. Questa disposizione mira a garantire al caregiver la possibilità di bilanciare l’attività lavorativa con le responsabilità assistenziali, prevenendo trasferimenti che potrebbero mettere a rischio tale equilibrio.
La sentenza del Tribunale di Milano in commento ha apportato una significativa precisazione: la protezione del ruolo del caregiver non deve essere intesa in modo rigido e privo di considerazione per le esigenze operative che potrebbero ostacolare l’efficienza dell’organizzazione. In particolare, il caso esaminato riguardava una lavoratrice caregiver coinvolta in una situazione di forte conflittualità con il proprio team, tanto da incidere negativamente sul clima aziendale e sulla produttività complessiva.
Il Tribunale ha stabilito che, in caso di comprovata incompatibilità ambientale tale da rendere insostenibile la permanenza della lavoratrice nella sede di origine, il trasferimento può essere ritenuto legittimo anche senza il consenso della stessa. La decisione si fonda su un’interpretazione sistematica della normativa, volta a garantire un bilanciamento tra i diritti individuali del lavoratore e le necessità operative dell’azienda.
La pronuncia evidenzia che l’incompatibilità ambientale deve essere dimostrata mediante elementi oggettivi e documentati, non riconducibili alle normali dinamiche organizzative o relazionali. Solo in presenza di circostanze eccezionali, che non possono essere gestite tramite interventi di mediazione interna, il datore di lavoro ha facoltà di procedere al trasferimento, garantendo il rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza.
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La Corte di Cassazione: Illegittimo il licenziamento per uso privato del computer aziendale senza condotta grave
Con l’ordinanza n. 7825/2025, la Corte di Cassazione ha sancito che il licenziamento di un dipendente per aver utilizzato il computer aziendale per scopi privati è da considerarsi illegittimo, salvo che non si riscontri una condotta di particolare gravità.
Secondo la Corte, l’uso improprio degli strumenti di lavoro forniti dall’azienda non può di per sé giustificare un provvedimento di recesso, a meno che non emerga un intento lesivo verso l’azienda o un comportamento tale da compromettere gravemente il rapporto fiduciario. Nella valutazione della legittimità del licenziamento, è necessario tenere conto di alcuni criteri essenziali, tra cui la limitata entità delle violazioni, l’assenza di un danno concreto e la mancanza di un pregiudizio effettivo per il datore di lavoro.
La decisione della Corte si basa su principi di proporzionalità e ragionevolezza. Per determinare pertanto se il licenziamento sia giustificato, è indispensabile considerare:
Questa ordinanza si inserisce nel quadro più ampio del bilanciamento tra i diritti del lavoratore e il potere disciplinare del datore di lavoro, ribadendo che il licenziamento deve essere sempre una misura di ultima istanza. L’utilizzo privato di strumenti aziendali, se non accompagnato da un intento doloso o da gravi conseguenze per l’impresa, non può essere considerato un motivo valido per interrompere il rapporto lavorativo.
In conclusione, è necessario che i datori di lavoro procedano a una valutazione attenta dei comportamenti dei dipendenti prima di adottare provvedimenti disciplinari estremi. È fondamentale che le politiche aziendali siano chiare riguardo l’uso degli strumenti di lavoro e che eventuali violazioni siano gestite in modo proporzionato, privilegiando soluzioni alternative al licenziamento.
L’obbligo del datore di mantenere la serenità dell’ambiente di lavoro, tra i doveri di prevenzione e protezione a suo carico, ai sensi dell’art. 2087 c.c.: così la Cassazione nelle ordinanze di febbraio 2024.
Il datore di lavoro che ignori colposamente l’esistenza di rapporti conflittuali nei luoghi di lavoro fino al punto di rendere l’ambiente lavorativo nocivo, stressogeno e fonte di concreti pregiudizi psico-fisici a danno dei dipendenti, è ugualmente censurabile rispetto al caso in cui realizzi scientemente delle vessazioni (mobbing, straining, stalking occupazionale).
Nel novero dei doveri di prevenzione e protezione a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. rientra pertanto anche il dovere di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative.
In caso di inadempimento, a variare sarà la quantificazione risarcitoria che sarà più elevata nel caso di condotte persecutorie connotate da sistematicità e intenzionalità (mobbing, straining, stalking occupazionale, ecc.), più lieve nel caso di illeciti derivanti da semplice negligenza e imperizia (come, appunto, la colpevole inerzia nel caso di tolleranza della generica conflittualità lavorativa).
Nel processo, il lavoratore avrà l’onere di provare la nocività dell’ambiente di lavoro, il danno e il nesso causale tra questi; il datore di lavoro dovrà invece provare di aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Questo il contenuto delle sei recentissime ordinanze della Corte di Cassazione (Cass., 19 gennaio 2024, n. 2084; Cass. 31 gennaio 2024, n. 2870; Cass., 12 febbraio 2024, n. 3791; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3822; Cass., 12 febbraio 2024, n. 3856; Cass., 16 febbraio 2024, n. 4279).
L’estensione del catalogo dei reati presupposto di illecito a carico delle persone giuridiche a settori dotati di particolare tecnicismo, quale quello ambientale o della sicurezza sui luoghi di lavoro, ha alimentato il dibattito sulle norme tecniche e sulla loro possibile interazione con i modelli organizzativi di prevenzione dei reati.
L’art. 25 undecies del D. Lgs. 231/2001, rubricato “Reati ambientali“, prevede l’elenco dei reati presupposto in relazione alla commissione dei quali è prevista la responsabilità dell’ente. I reati ambientali presentano diverse peculiarità se confrontati con gli altri reati presupposto.
In particolare, si tratta in gran parte di reati:
La responsabilità dell’ente per reati ambientali si configura in maniera tutto sommato contenuta. Soltanto per le fattispecie più gravi sono previste sanzioni interdittive (comunque brevi). Per le altre fattispecie, che sono la maggior parte, la sanzione è soltanto pecuniaria. Ciò determina, da un lato, una limitazione dei poteri cautelari, dall’altro, l’ampia possibilità di ricorrere al procedimento per decreto.
Numerosi sono i profili di criticità dell’art. 25 undecies rilevati dalla miglior dottrina.
Ma la problematicità della scelta legislativa che qui si intende sottolineare riguarda la mancata indicazione dei criteri minimi di implementazione dei modelli organizzativi esimenti, come invece si è verificato in occasione dell’introduzione del nuovo testo unico sulla sicurezza del lavoro (D. Lgs. 9 aprile 2008 n. 81), il quale prevede altresì la presunzione di conformità legale (e dunque efficacia esimente) per i modelli di organizzazione aziendale conformi alle Linee guida UNI – INAIL o al British Standard OHSAS 18001:2007.
Attesa la complessità ed il tecnicismo della materia ambientale, ci si attendeva che il legislatore, sulla scia dell’esperienza dei sistemi di gestione della salute e della sicurezza sul lavoro (SGLS), tenesse conto delle norme tecniche e degli standards internazionali adottati dai sistemi di gestione ambientale quale punto di riferimento per le imprese ed ausilio alle stesse nella costruzione dei modelli organizzativi.
La finalità delle norme tecniche è tuttavia diversa da quella di prevenzione dei reati propria del modello organizzativo, curandosi piuttosto di garantire la soddisfazione dell’utenza, l’efficienza produttiva o l’ottimizzazione dei risultati.
Considerate tali specifiche finalità, se ne deduce che le certificazioni ottenute in base al rispetto delle norme tecniche non possono considerarsi esaustive degli oneri derivanti dall’adozione di un modello organizzativo di prevenzione dei reati.
Tuttavia i modelli di organizzazione condividono con la normazione tecnica in materia di sistemi di gestione ambientale lo stesso approccio organizzativo per “processi e procedure”, policy aziendale, pianificazione, implementazione e aggiornamento continuo. L’aspetto più significativo è però costituito dalla circostanza che la norma tecnica, codificando lo stato dell’arte in un determinato settore, potrà essere richiamata nel singolo caso concreto quale comportamento esigibile in una specifica attività.
Pertanto le norme tecniche ben si prestano ad essere utilizzate come parametri obiettivi ed esterni di valutazione in materie specialistiche sia dal giudice nel singolo caso concreto che dal legislatore in via generale ed astratta.
L’interazione tra norme tecniche e modello organizzativo si è peraltro già verificata con successo nella materia della sicurezza sul lavoro, come innanzi anticipato.
In materia ambientale, tuttavia, manca nel D. Lgs. 121/2011 una norma analoga all’articolo 30 del D. Lgs. 81/2008 che indichi le linee guida da adottare per uniformare i modelli di organizzazione aziendale rendendoli presuntivamente idonei a prevenire la commissione di reati ambientali, né il decreto fa riferimento alcuno alle certificazioni ambientali ISO 14001 o Emas.
Ciò nonostante, secondo le istanze provenienti dalle associazioni di categoria e le osservazioni della migliore dottrina, è verosimile che i giudici investiti di simili questioni possano fare riferimento ai sistemi di certificazione ambientale, purché adeguati a prevenire i rischi di commissione di reati, in quanto idonei a rappresentare lo standard di diligenza esigibile secondo la migliore scienza ed esperienza del momento.
Un aspetto da considerare è che i reati previsti dal legislatore ambientale (D. Lgs. 152/2006 ed altre norme settoriali) spesso vengono contestati in concorso con altre fattispecie di reato, le quali a loro volta possono rientrare tra i reati presupposto di cui al D. Lgs. 231/2001. Si pensi ai reati associativi e di criminalità organizzata, ai reati di falso, truffa aggravata ai danni della P.A., corruzione, concussione, reati informatici, disastri, danneggiamenti, riciclaggio.
Spesso, peraltro, le problematiche ambientali possono esse stesse rappresentare il presupposto per la commissione di altri reati, come nel caso di inquinamento che possa determinare un pericolo per la salute dei lavoratori o il caso di “passività ambientali” che possono costituire l’oggetto di false comunicazioni sociali.
Ciò comporta la necessità di effettuare una “mappatura dei rischi” che sia trasversale nonché di adottare, anche nella parte speciale del modello 231 dedicata ai reati ambientali, controlli (preventivi e successivi), non strettamente limitati alla gestione degli aspetti ambientali.
Il modello 231 deve quindi essere realizzato “su misura” della singola impresa, deve cioè essere “personalizzato” (nel linguaggio recente “customizzato”) per ciascuna diversa organizzazione. Ciò è ancora più necessario per la prevenzione dei reati ambientali, posto che essi vengono commessi generalmente nell’attività operativa dell’impresa con modalità eterogenee. In sostanza, occorre procedere ad una mappatura dei rischi di commissione dei reati nella quale per ciascun reato o gruppo di reati si vada ad indagare:
e conseguentemente individuare le possibili modalità attuative di prevenzione.
Ciò significa che, una volta individuati i rischi, le funzioni ed i processi sui quali intervenire, le misure da adottare:
In altre parole, pur riconosciuta la validità e la imprescindibilità degli standards che possono essere presi a riferimento per misurare la propria organizzazione, non sembra utile l’adozione di un modello assoluto ossia efficace per tutte le realtà aziendali. Non è un caso, infatti, che l’European IPPC Bureau della Commissione europea menzioni, oltre ai sistemi di gestione ambientale conformi al regolamento EMAS o alla norma UNI EN ISO 14001, anche i sistemi di gestione ambientale “non standardised”, senza che sia attribuito a questi ultimi un valore diverso.
Non è da sottovalutare, poi, il ruolo essenzialmente creativo che ha assunto la giurisprudenza nel settore ambientale e dal quale non può prescindersi nella implementazione o nell’aggiornamento dei compliance programs per la prevenzione dei reati ambientali.
Ciò non deve indurre a pensare che l’adozione di un modello di prevenzione, soprattutto nella materia ambientale, sia sostanzialmente inutile. I vantaggi dell’adozione del modello sono comunque molteplici: oltre alla prevenzione dei reati ed alla formalizzazione delle responsabilità, va segnalata la razionalizzazione dei processi aziendali e il miglioramento dell’immagine nei confronti di stakeholders e shareholders.
Alla luce della sopra esposte considerazioni, sembra potersi concludere che un sistema di gestione ambientale conforme al regolamento EMAS, alla norma UNI EN ISO 14001 o a questi equivalente, seppur non standardizzato, costituisce sicuramente un idoneo punto di partenza nella costruzione del modello organizzativo 231 per la prevenzione dei reati ambientali. Le misure che le aziende devono adottare per evitare di incorrere in responsabilità da reato devono, infatti, essere improntate alle migliori tecniche disponibili o alle migliori pratiche ambientali e tali possono sicuramente considerarsi i sistemi di gestione ambientale.
Anche la giurisprudenza ha mostrato di apprezzare i percorsi di certificazione e l’adozione delle più avanzate tecniche di organizzazione riconoscendo alla norma tecnica la prerogativa di codificare lo stato dell’arte in un determinato settore e dunque il comportamento esigibile in una specifica attività, con immediati riflessi in tema di integrazione del precetto o di esclusione o graduazione dell’elemento soggettivo colposo.
Ciò che si rende necessario, tuttavia, è il rafforzamento di quegli elementi costitutivi del sistema di gestione ambientale che non sono in grado, di per sé soli, di soddisfare le richieste del D. Lgs. 231/2001, in un’ottica che comunque valorizzi le procedure e le prassi già esistenti in modo da evitare lo spreco di risorse e favorire l’ottimizzazione delle attività.
Può così concludersi che i sistemi di gestione ambientale determinano il progresso dei modelli organizzativi di prevenzione dei reati.
Lieti di averti dato qualche informazione generale, rimaniamo a disposizione per l’analisi del tuo caso!
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