Il tema dello stress lavoro-correlato è sempre più centrale nel diritto del lavoro e nella tutela della salute psicofisica del lavoratore. Accanto al più noto “mobbing”, che presuppone una pluralità di condotte vessatorie con intento persecutorio, si è affermata la figura dello “straining”. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro (sentenza n. 12518 depositata il 12 maggio 2025), offre un utile chiarimento sulla valutazione di quest’ultima fattispecie, sottolineando l’importanza fondamentale del contesto specifico.
Cosa distingue lo straining dal mobbing?
La giurisprudenza ha delineato le differenze tra le due figure:
- Il Mobbing richiede un elemento oggettivo (una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli nell’ambito del rapporto di lavoro) e un elemento soggettivo (l’intento persecutorio nei confronti della vittima). La condotta datoriale è illecita anche se i singoli atti sarebbero astrattamente legittimi, proprio in ragione della loro connotazione intenzionale e continuativa.
- Lo Straining, invece, si configura in presenza di comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente. La caratteristica distintiva è che, a differenza del mobbing, anche se mancano la pluralità delle azioni vessatorie o esse sono limitate nel numero, la condotta può comunque integrare straining. Addirittura, lo straining può derivare anche dal caso in cui il datore di lavoro, anche colposamente, consenta il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori.
Un orientamento consolidato, richiamato anche nella decisione in esame, riconosce che una condotta vessatoria di tipo episodico può integrare la fattispecie di straining. Ciò avviene allorché il lavoratore subisca una modificazione negativa e permanente della propria situazione lavorativa, e ciò può verificarsi anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio. Questa responsabilità datoriale si fonda sull’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e psicofisica del lavoratore.
Il caso esaminato dalla Cassazione
La pronuncia trae origine dalla vicenda di un lavoratore che aveva agito in giudizio nei confronti dell’ente presso cui prestava servizio, lamentando tra l’altro un risarcimento danni per “mobbing/straining” legato a un prospettato declassamento dalla ottava alla settima qualifica funzionale. Dopo alterne vicende nei gradi di merito, in cui il Tribunale aveva rigettato la domanda di risarcimento e la Corte d’Appello aveva confermato tale decisione, la questione è giunta all’esame della Suprema Corte. La Corte d’Appello, pur avendo riconosciuto la prospettazione del lavoratore in termini di straining (in quanto nulla era stato allegato circa il mobbing), aveva rigettato la domanda ritenendo che nella fattispecie non potesse ravvisarsi alcun comportamento stressogeno scientemente attuato nei confronti del dipendente che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto, potesse far ravvisare un’ipotesi di straining.
La valutazione fondamentale del contesto specifico
La Cassazione, pur accogliendo il ricorso del lavoratore su altri aspetti (relativi alla giurisdizione sulla domanda di declassamento), ha rigettato il motivo di ricorso relativo al risarcimento danni per straining. Nel motivare questa decisione, la Corte ha richiamato i principi sopra esposti sullo straining. Ha quindi sottolineato che la Corte d’Appello, nel rigettare la domanda, ha fatto corretta applicazione di tali principi. In particolare, la Suprema Corte ha evidenziato come la Corte d’Appello avesse valutato la condotta dell’Amministrazione e, con un accertamento di fatto (insindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato), avesse ritenuto che la circostanza addotta dal lavoratore fosse inidonea ex se ad integrare gli elementi costitutivi della fattispecie di straining.
Il punto centrale, confermato dalla Cassazione, è che nelle ipotesi di presunto straining da parte del datore di lavoro è necessario considerare sempre caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale e altre circostanze del caso concreto. La Corte d’Appello, nella sua valutazione di merito, non aveva ravvisato nella specifica condotta allegata dal lavoratore un comportamento stressogeno scientemente attuato che, considerato l’insieme degli elementi (caratteristiche, gravità, impatto sul lavoratore, contesto), potesse configurare straining. E la Cassazione ha ritenuto che questa valutazione di fatto fosse stata correttamente effettuata sulla base dei principi giuridici applicabili.
Conclusioni
La sentenza n. 12518/2025 della Cassazione, pur non innovando sui principi generali in materia di straining, ne ribadisce l’applicazione pratica, evidenziando l’importanza fondamentale di una valutazione concreta e contestualizzata delle condotte lamentate. Affinché si possa configurare lo straining, non basta lamentare una generica situazione di stress o un singolo episodio spiacevole. È indispensabile allegare e provare la sussistenza di comportamenti specifici del datore di lavoro (o da esso colposamente consentiti) che siano scientemente stressogeni (o oggettivamente tali per le loro caratteristiche) e che abbiano determinato una modificazione negativa e permanente della situazione lavorativa o un danno alla salute del lavoratore, valutando attentamente la gravità, l’impatto personale e professionale, e tutte le altre circostanze del caso concreto.