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DiAnnamaria Palumbo

Naspi e “lavoro effettivo”: la Cassazione fa chiarezza sulle giornate contribuite

Il mondo del lavoro è in continua evoluzione e con esso anche le interpretazioni delle norme che regolano le prestazioni di sostegno al reddito. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione, l’Ordinanza n. 15549, depositata il 12 giugno 2025, ha fornito importanti chiarimenti sul concetto di “lavoro effettivo” ai fini dell’accesso all’indennità di disoccupazione Naspi. Una sentenza che tutela i diritti dei lavoratori e chiarisce i confini tra prestazione lavorativa e periodi di sospensione.

Il caso in esame: un lavoratore e la sua Naspi contesa

La vicenda prende le mosse dal ricorso di un lavoratore al quale l’INPS aveva inizialmente negato la Naspi. Il motivo del rifiuto? La presunta mancanza del requisito delle trenta giornate di lavoro effettivo nei dodici mesi precedenti il licenziamento, come previsto dall’articolo 3, comma 1, lettera c) del D. Lgs. n. 22/2015.

La Corte d’Appello di Torino aveva dato ragione al lavoratore, interpretando la norma in modo estensivo: nel computo delle trenta giornate, dovevano essere considerate “tutte le giornate per le quali è stata versata la contribuzione”. Questo includeva anche i periodi non effettivamente lavorati ma che legittimano la sospensione del rapporto (come maternità, malattia, infortunio, ferie, CIGS, contratto di solidarietà), purché dessero diritto a una retribuzione su cui venivano versati i contributi. Nel caso specifico, il lavoratore aveva percepito compensi a titolo di ROL, ferie e festività durante un contratto di solidarietà aziendale, pur senza prestare attività concreta.

L’intervento della Cassazione: cosa si intende per “lavoro effettivo”?

L’INPS ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che il requisito di “lavoro effettivo” dovesse sussistere solo in presenza di una effettiva prestazione lavorativa. La Suprema Corte, tuttavia, ha rigettato il ricorso, confermando l’orientamento già espresso in precedenti pronunce e fornendo ulteriori, preziose precisazioni.

La Cassazione ha ribadito che la locuzione “lavoro effettivo” non coincide con il significato “naturalistico” di attività materialmente in essere. Dal punto di vista giuridico, la prestazione di lavoro è considerata “effettiva” anche durante le pause fisiologiche. Questo perché, in tali ipotesi, il contratto rimane inalterato nella sua funzionalità, e non si interrompono gli obblighi retributivi e contributivi.

La Corte ha sottolineato che un’interpretazione restrittiva della norma, che escludesse queste giornate, finirebbe per pregiudicare il lavoratore nei suoi diritti previdenziali anche quando esercita prerogative legittime o subisce comportamenti unilaterali del datore di lavoro, rischiando di violare l’articolo 38 della Costituzione.

I periodi di sospensione e la loro “neutralizzazione”

Un punto essenziale della pronuncia riguarda i periodi di sospensione del rapporto di lavoro dovuti a cause come maternità, infortunio, malattia, congedo parentale, o periodi coperti da cassa integrazione guadagni a zero ore. In questi casi, il lavoro non può essere considerato “effettivo” perché tali eventi impediscono totalmente lo svolgimento dell’attività e sospendono le obbligazioni principali delle parti.

Tuttavia, la Cassazione ha chiarito che tale sospensione, essendo un effetto della protezione costituzionale garantita dall’articolo 38 per situazioni non imputabili al lavoratore, non deve arrecare un danno al lavoratore stesso, impedendogli il godimento della prestazione di disoccupazione. La soluzione costituzionalmente corretta consiste nel “neutralizzare” tali periodi di sospensione, escludendoli dal computo dei dodici mesi di riferimento per la Naspi. Ciò significa che, in pratica, il periodo di osservazione per il requisito delle trenta giornate viene “allungato” di un lasso di tempo equivalente alla durata della sospensione tutelata.

I principi di diritto enunciati dalla Cassazione:

La sentenza si conclude con l’enunciazione di due principi fondamentali:

  • Il requisito delle “trenta giornate di lavoro effettivo” è integrato non solo dalle giornate di ferie e/o riposo retribuito, ma da ogni giornata che dia diritto al lavoratore alla retribuzione e alla relativa contribuzione.
  • Ai fini del computo dei “dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione”, sono esclusi (neutralizzati) i periodi di sospensione del rapporto di lavoro per cause tutelate dalla legge, che impediscono le reciproche prestazioni.

Implicazioni pratiche per lavoratori e datori di lavoro

Questa ordinanza della Cassazione rappresenta un punto fermo importante. Conferma che la normativa sulla Naspi deve essere interpretata in maniera tale da tutelare la posizione del lavoratore, evitando che eventi protetti dalla legge o fisiologici al rapporto di lavoro possano precludere l’accesso a prestazioni fondamentali.

Per i lavoratori, ciò significa maggiore chiarezza e sicurezza sul calcolo dei requisiti per la Naspi. Per i datori di lavoro e gli enti previdenziali, la pronuncia fornisce una guida precisa sull’interpretazione del concetto di “lavoro effettivo” e sulla gestione dei periodi di sospensione.

Il nostro studio legale resta a disposizione per approfondimenti su questa e altre tematiche relative al diritto del lavoro e della previdenza sociale.


Si precisa che il presente articolo ha carattere informativo e non costituisce consulenza legale. Per questioni specifiche, si invita a consultare un professionista qualificato.

DiAnnamaria Palumbo

Principi di tassatività e proporzionalità della sanzione disciplinare: le molestie verbali al vaglio della Cassazione

Una recente pronuncia, l’ordinanza n. 15549 dell’11 giugno 2025 della Cassazione Civile, Sezione Lavoro, ha offerto chiarimenti importanti in merito all’applicazione delle sanzioni disciplinari per condotte di molestie sessuali verbali sul luogo di lavoro. La sentenza ribadisce principi chiave relativi alla specificità della contestazione disciplinare e alla proporzionalità della sanzione, rafforzando la posizione del datore di lavoro nell’affrontare comportamenti gravi.

I fatti di causa

La vicenda trae origine dal ricorso di un dipendente, R.A., contro la decisione della Corte d’Appello di Bologna, che aveva confermato la legittimità della sanzione disciplinare di otto giorni di sospensione inflitta dalla sua azienda, (OMISSIS) spa. La sanzione era stata comminata a seguito di molestie sessuali verbali nei confronti di una collega di lavoro, una condotta che la Corte d’Appello aveva ritenuto fondata sulla base delle testimonianze raccolte. La corte aveva considerato adeguata la “massima sanzione conservativa”, ritenendo irrilevante la pregressa storia professionale del dipendente.

Le contestazioni del ricorrente in Cassazione

Il dipendente R.A. ha presentato ricorso in Cassazione, sollevando diverse censure, tra cui:

  • La violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 7 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori) e degli articoli 2104 e 2105 c.c., lamentando l’errata applicazione del principio di tassatività e determinatezza della contestazione disciplinare a causa dell’omessa indicazione dell’orario esatto degli episodi e del nome di tutti i colleghi menzionati.
  • La denuncia di incoerenza logica nell’applicazione del principio di “circolarità” tra onere di allegazione e onere della prova a carico del datore di lavoro.
  • La deduzione della violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. e 111 della Costituzione, per l’omessa indicazione del criterio logico assunto dalla Corte territoriale nella valutazione del quadro probatorio e delle testimonianze.
  • La censura di anomalia motivazionale e violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare.
  • La violazione e falsa applicazione dell’articolo 2106 c.c., per la presunta violazione del principio di gradualità e proporzionalità della sanzione.

Le ragioni della decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato complessivamente il ricorso, fornendo importanti chiarimenti su ciascun punto:

  1. Sulla determinatezza della contestazione: La Cassazione ha ritenuto infondato il primo motivo. Ha confermato che la Corte territoriale ha correttamente valutato che la contestazione era sufficientemente determinata sia in merito alla condotta contestata (molestie verbali a carattere sessuale nei confronti di altra dipendente) sia alle circostanze di tempo e luogo (23.6.2021). L’assenza dell’indicazione esatta dell’orario o del nome di tutti i colleghi non è stata considerata rilevante, poiché l’addebito riportava i fatti essenziali caratterizzanti la condotta sanzionata. Tale valutazione rientra nel giudizio di merito del giudice di fatto e non è censurabile in Cassazione se adeguatamente motivata e non contraddittoria.
  2. Sulla coerenza temporale e l’onere della prova: Relativamente al secondo motivo, la Corte ha osservato che la motivazione della Corte d’Appello deve essere “letta” nella sua interezza per coglierne l’iter logico . Sebbene la contestazione iniziale potesse essere percepita come generica sull’orario, il giudice d’appello ha correttamente indicato presunti orari a seguito delle testimonianze esaminate per valutare la coerenza dei testi con quanto contenuto nell’addebito . La Cassazione ha chiarito che non vi è stata alcuna “integrazione o interpolazione” della contestazione, ma solo un controllo sulla coerenza dei fatti risultanti dall’istruttoria. L’elemento dell’orario e la sua esattezza non sono stati considerati decisori rispetto all’addebito in sé; ciò che rileva è invece la coerenza tra quanto affermato nell’addebito e quanto risultante dall’istruttoria.
  3. Sulla valutazione della prova e la “storia lavorativa”: Il terzo motivo, che contestava l’errata valutazione della “storia lavorativa” del ricorrente e dell’ambiente ostile, è stato dichiarato inammissibile . La Corte ha ribadito che concentrare l’attenzione sullo specifico e unico fatto contestato (molestie verbali con implicazioni sessuali) per il quale era stata raggiunta piena prova, è del tutto ragionevole . La censura si è sostanziata in una riproposizione di elementi fattuali già discussi in sede di merito e non consentiti in sede di legittimità .
  4. Sull’immutabilità della contestazione: Analogamente, la censura relativa all’anomalia motivazionale e alla presunta violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare (per la collocazione oraria del fatto da parte della Corte d’Appello) è stata ritenuta inammissibilmente posta . Come già evidenziato, l’intervento della Corte d’Appello mirava a verificare la coerenza tra l’addebito e l’istruttoria, senza modificare la contestazione originaria.
  5. Sulla proporzionalità della sanzione: Infine, riguardo alla violazione del principio di gradualità e proporzionalità della sanzione (art. 2106 c.c.), la Cassazione ha confermato che si tratta di una valutazione di merito, di competenza della Corte d’Appello, e non sindacabile in sede di legittimità . La sentenza impugnata aveva chiarito che, pur non potendo dare rilievo ad altre due contestazioni più generiche, la rilevanza disciplinare del nucleo del fatto imputato (le molestie sessuali verbali), anche considerato nella sua singolarità, giustificava l’entità della sanzione inflitta . La Cassazione ha riaffermato che il giudizio di proporzionalità è sindacabile solo in caso di motivazione assente, illogica, perplessa o manifestamente incomprensibile .

Conclusioni e implicazioni pratiche

Questa ordinanza della Cassazione rafforza l’orientamento giurisprudenziale secondo cui le contestazioni disciplinari, pur dovendo essere specifiche per consentire al dipendente di difendersi, non richiedono un’eccessiva pedanteria nell’indicazione di dettagli minori (come l’orario esatto o tutti i nomi dei presenti) purché i fatti essenziali siano chiaramente individuati. Inoltre, la sentenza sottolinea l’ampia discrezionalità del giudice di merito nella valutazione della proporzionalità della sanzione, soprattutto in presenza di condotte gravi come le molestie sessuali, dove anche un singolo episodio può giustificare una sanzione significativa, inclusa la massima sanzione conservativa.

Per i datori di lavoro, è fondamentale assicurare che le contestazioni disciplinari siano chiare e sufficientemente dettagliate per consentire al dipendente una piena difesa, ma senza la necessità di includere ogni minimo dettaglio che non sia essenziale alla qualificazione del fatto. La capacità di dimostrare la coerenza tra la contestazione e i fatti accertati in fase istruttoria rimane un pilastro per la tenuta del provvedimento disciplinare in sede giudiziale.


Si precisa che il presente articolo ha carattere informativo e non costituisce consulenza legale. Per questioni specifiche, si invita a consultare un professionista.

DiAnnamaria Palumbo

La Cassazione ribadisce la forza del giudicato nei rapporti di lavoro universitari: il caso dei lettori di madrelingua

Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 5 giugno 2025, n. 15052

La Corte di Cassazione ha recentemente pronunciato una sentenza che chiarisce i confini dell’autorità del giudicato nei rapporti di lavoro di durata, con particolare riferimento alla vicenda dei lettori di madrelingua straniera presso le università italiane.

Il caso in esame

La controversia ha origine dal complesso rapporto lavorativo tra una lettrice di madrelingua straniera e l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. La vicenda si snoda attraverso diversi gradi di giudizio e tocca questioni fondamentali relative alla determinazione del trattamento retributivo e all’applicazione dell’art. 26, comma 3, della legge n. 240/2010.

La lavoratrice, assunta inizialmente come lettrice di madrelingua straniera con contratti a termine reiterati, aveva ottenuto in un primo giudizio il riconoscimento della natura a tempo indeterminato del rapporto e la liquidazione delle differenze retributive fino al 31 ottobre 1994. Successivamente, un secondo giudizio aveva definito le differenze retributive per il periodo dal 1994 al 2008, con sentenza passata in giudicato che aveva escluso espressamente l’applicazione dell’art. 26, comma 3, della legge n. 240/2010.

La questione giuridica

Il nodo centrale della controversia riguardava la possibilità di applicare criteri di calcolo diversi da quelli già definiti dal giudicato per il periodo successivo al 2008. La Corte d’Appello di Bari aveva accolto parzialmente l’appello della lavoratrice, ritenendo che la norma di interpretazione autentica dell’art. 26, comma 3, potesse trovare applicazione per il periodo post-2008, non coperto dal precedente giudicato.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha censurato l’orientamento della Corte d’Appello, riaffermando un principio fondamentale: il giudicato esterno, in quanto dotato di forza imperativa e indisponibile per le parti, deve essere interpretato alla stregua delle norme giuridiche.

La Cassazione ha chiarito che la sentenza della Corte d’Appello di Lecce del 2013, passata in giudicato, aveva espressamente escluso l’applicazione dell’art. 26, comma 3, della legge n. 240/2010 non solo per il periodo specificamente oggetto di quel giudizio, ma anche per il periodo successivo, “in virtù del consolidamento della situazione antecedente”.

Il principio di diritto affermato

La sentenza ribadisce che, nei rapporti giuridici di durata e nelle obbligazioni periodiche, l’autorità del giudicato impedisce il riesame di questioni già definitivamente risolte. Il giudicato esplica la propria efficacia anche nel tempo successivo alla sua emanazione, con l’unico limite rappresentato da una sopravvenienza di fatto o di diritto che muti materialmente il contenuto del rapporto.

Nel caso specifico, poiché alla data di definizione del giudizio precedente la norma di interpretazione autentica era già in vigore e la Corte di merito ne aveva inequivocabilmente escluso l’applicazione, non era possibile rimetterne in discussione l’applicabilità in un giudizio successivo relativo allo stesso rapporto.

Implicazioni pratiche

Questa pronuncia assume particolare rilevanza per diversi aspetti:

  1. Stabilità dei rapporti giuridici: conferma che il giudicato costituisce un elemento di certezza che non può essere aggirato attraverso la frammentazione temporale delle controversie
  2. Interpretazione del giudicato: stabilisce che l’interpretazione delle decisioni passate in giudicato segue le regole dell’interpretazione normativa, non negoziale
  3. Rapporti di lavoro universitari: chiarisce i limiti di applicazione retroattiva delle norme di interpretazione autentica quando intervengano su rapporti già definiti da giudicato

Conclusioni

La decisione della Cassazione rappresenta un importante chiarimento sui rapporti tra giudicato e normativa sopravvenuta nei rapporti di lavoro di durata. Il principio affermato tutela la certezza dei rapporti giuridici e impedisce che la frammentazione temporale delle controversie possa essere utilizzata per aggirare gli effetti di decisioni già definitive.

La vicenda evidenzia l’importanza di una valutazione complessiva degli effetti del giudicato nei rapporti continuativi e conferma che l’autorità della cosa giudicata non può essere compressa da interpretazioni che ne limitino artificiosamente la portata temporale.


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