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DiAnnamaria Palumbo

Licenziamento per GMO e congedo straordinario: la Cassazione chiarisce la data di estinzione del rapporto di lavoro

Una recente pronuncia della Cassazione civile (sez. Lavoro, n. 15513 del 10/06/2025) offre chiarimenti fondamentali sulla data di efficacia del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (gmo) e le sue implicazioni, in particolare riguardo alla fruizione di congedi straordinari. La sentenza è di grande interesse per lavoratori e datori di lavoro, in quanto ridefinisce i confini temporali dell’estinzione del rapporto di lavoro in presenza della procedura di conciliazione obbligatoria.

Il caso: quando finisce davvero il rapporto di lavoro?

La vicenda trae origine dal caso del signor [omissis], assunto a tempo indeterminato da un’ industria cartaria. Il 22/01/2019, l’azienda comunicava l’intenzione di licenziarlo per giustificato motivo oggettivo, dovuto alla soppressione della struttura informatica di cui era responsabile, avviando la procedura di conciliazione prevista dalla legge.

Durante il periodo della procedura, il dipendente veniva collocato in ferie forzate fino all’08/02/2019, giorno in cui si teneva il tentativo di conciliazione con esito negativo. Lo stesso giorno, il lavoratore presentava all’Inps domanda di congedo biennale per assistere la madre non vedente. L’Inps rigettava la domanda, sostenendo che al momento della presentazione il rapporto di lavoro era già cessato.

Il datore di lavoro comunicava il licenziamento effettivo il 09/02/2019, con decorrenza dall’08/02/2019 e con esonero dal preavviso. Il signor ni.ma. Impugnava il licenziamento, chiedendo che la data di cessazione del rapporto fosse spostata all’11/02/2019 (data di ricezione della lettera) e che il licenziamento fosse dichiarato inefficace fino alla scadenza del congedo biennale, dato che la domanda era stata presentata quando il rapporto era ancora in essere.

La Corte d’appello aveva respinto le sue domande, sostenendo che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo produce effetti retroattivamente dal giorno della comunicazione di avvio del procedimento di conciliazione (nel caso specifico, il 22/01/2019), e che le uniche eccezioni erano tassative e non includevano il congedo biennale. La Corte d’appello aveva altresì ritenuto inderogabile la norma sull’efficacia retroattiva, a nulla valendo la scelta dell’azienda di collocare il dipendente in ferie fino all’08/02/2019.

La chiave di volta della Cassazione: rilevanza giuridica vs. effetto estintivo

La suprema Corte ha accolto il ricorso del lavoratore, cassando la sentenza della Corte d’appello. I giudici di legittimità hanno innanzitutto chiarito che la procedura di licenziamento per giustificato motivo oggettivo è una fattispecie complessa, strutturata in tre fasi:

  1. Comunicazione di intenzione di licenziare e avvio del tentativo di conciliazione.
  2. Svolgimento del procedimento conciliativo.
  3. Atto di licenziamento e sua comunicazione al lavoratore, solo dopo l’esito negativo della conciliazione.

Il punto essenziale della pronuncia risiede nella distinzione tra il momento in cui il licenziamento acquista rilevanza giuridica e quello in cui produce il suo effetto estintivo:

  • Rilevanza giuridica: il licenziamento per giustificato motivo oggettivo acquista rilevanza giuridica sin dal momento di avvio del procedimento conciliativo (quindi retroattivamente).
  • Effetto estintivo: l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, invece, non è sempre retroattivo. Dipende dalla scelta del datore di lavoro di concedere o meno il preavviso, o di non interrompere il rapporto di lavoro durante il periodo della procedura di conciliazione.

Il “preavviso lavorato” e la derogabilità della norma

La Cassazione ha sottolineato due aspetti fondamentali:

  • Salvezza del diritto al preavviso: la legge (art. 1, co. 41, l. N. 92/2012) fa salvo in ogni caso il diritto al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva. Ciò significa che, se il rapporto di lavoro è proseguito durante la procedura di conciliazione (anche con collocazione in ferie, come nel caso di specie), tale periodo è considerato per legge come “preavviso lavorato”. Questo esclude in radice la possibilità che l’effetto estintivo del recesso datoriale si collochi in un momento anteriore alla data di comunicazione del primo atto.
  • Derogabilità “in melius”: contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte d’appello, la norma sull’efficacia del licenziamento non è di natura imperativa e quindi è derogabile (seppur solo “in melius”, ossia a favore del lavoratore) per quanto riguarda il momento di produzione dell’effetto estintivo. La scelta del datore di lavoro di non interrompere il rapporto (ad esempio, collocando il dipendente in ferie durante la procedura di conciliazione) è un atto gestionale che ha una significativa valenza derogatoria, mantenendo la stabilità del rapporto fino a una data successiva.

Nel caso di specie, la Corte ha riconosciuto che l’averlo collocato in ferie fino all’08/02/2019 significava che tale giorno era ancora di durata del rapporto di lavoro, da considerare estinto non prima del 09/02/2019. La dichiarazione della società nella lettera di licenziamento del 09/02/2019, che l’effetto estintivo si sarebbe prodotto retroattivamente dall’08/02/2019, è stata ritenuta “tamquam non esset” (come se non esistesse).

L’importanza della domanda di congedo straordinario

Avendo stabilito che il rapporto di lavoro era ancora attivo l’08/02/2019, giorno della presentazione della domanda di congedo straordinario biennale, la Cassazione ha ordinato alla Corte d’appello di rivalutare la vicenda. La Corte ha ribadito il principio secondo cui il diritto alla conservazione del posto di lavoro per chi fruisce di congedo straordinario (ex art. 42, co. 5, d.lgs. N. 151/2001 e art. 4, co. 2, l. N. 53/2000) non rende nullo un licenziamento per altra causa legittima, ma al più lo rende inefficace fino al termine del congedo stesso. Questo diritto alla conservazione si traduce quindi in una sospensione temporanea degli effetti del licenziamento.

Conclusioni e implicazioni pratiche

La sentenza n. 15513/2025 della Cassazione è di fondamentale importanza perché:

  • Chiarisce la complessità della procedura di licenziamento per gmo, distinguendo chiaramente tra il momento in cui il recesso acquista rilevanza giuridica e quello in cui produce i suoi effetti estintivi.
  • Riconosce la valenza del “preavviso lavorato”, anche se non esplicitamente dichiarato come tale, affermando che il rapporto di lavoro resta giuridicamente rilevante durante la procedura di conciliazione se il dipendente continua a lavorare o è comunque “a disposizione” (es. in ferie).
  • Afferma la derogabilità “in melius” della norma sull’efficacia del licenziamento. Le scelte del datore di lavoro che favoriscono il mantenimento del rapporto (come la prosecuzione dell’attività o il collocamento in ferie) sono rilevanti e spostano in avanti la data di effettiva estinzione.
  • Rafforza la tutela del lavoratore che richiede congedi speciali, garantendo che la domanda sia valida se presentata quando il rapporto è ancora in essere (anche se in fase di preavviso lavorato) e che il licenziamento possa essere temporaneamente inefficace.

Questa pronuncia è un monito importante per i datori di lavoro a considerare attentamente la gestione del rapporto durante la procedura di licenziamento per gmo e per i lavoratori a conoscere i propri diritti in termini di tempistiche e tutele.


Per qualsiasi chiarimento o per un’analisi specifica del vostro caso, non esitate a contattare il nostro studio.

DiAnnamaria Palumbo

Reddito di Cittadinanza e requisiti di “Onorabilità”: la Cassazione fa chiarezza sul “patteggiamento”

Nel panorama delle prestazioni assistenziali, il Reddito di Cittadinanza (RdC) ha rappresentato per anni una misura di sostegno fondamentale. La sua concessione, tuttavia, è sempre stata vincolata a stringenti requisiti, non solo economici, ma anche di condotta. Una recente e significativa pronuncia della Corte di Cassazione, l’Ordinanza n. 15688, depositata il 12 giugno 2025, getta nuova luce su un aspetto cruciale: l’impatto delle sentenze di applicazione della pena su richiesta (il cosiddetto “patteggiamento”) sull’accesso a questo beneficio.

Il caso in esame

La vicenda al centro della sentenza riguarda il signor [Omissis], al quale l’INPS aveva negato il Reddito di Cittadinanza. Il motivo del rifiuto era la sussistenza, nei dieci anni precedenti la domanda, di una condanna definitiva per uno dei reati previsti dall’articolo 7, comma 3, del D.L. n. 4/2019 (convertito con L. n. 26/2019), nel testo modificato dalla L. n. 234/2021.

La Corte d’Appello di Roma, in primo grado, aveva accolto la domanda del lavoratore. I giudici di merito avevano interpretato la normativa ritenendo che una sentenza di applicazione della pena su richiesta (ex art. 444 c.p.p.) fosse una causa di revoca del beneficio eventualmente già concesso, ma non un ostacolo alla sua concessione iniziale, in quanto non la consideravano una vera e propria “sentenza di condanna” ai fini dell’accesso.

L’intervento della Cassazione: quando il “patteggiamento” conta subito

L’INPS ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che l’interpretazione della Corte d’Appello fosse errata e denunciando la violazione degli artt. 2, comma 1, e 7, comma 3, D.L. n. 4/2019.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’INPS, fornendo una chiarificazione decisiva. Ha premesso che l’art. 2, comma 1, D.L. n. 4/2019, prevedeva tra i requisiti per il RdC che il richiedente non avesse “condanne definitive, intervenute nei dieci anni precedenti la richiesta” per i delitti indicati nel successivo art. 7, comma 3. Quest’ultimo articolo, a sua volta, stabiliva che sia la “condanna in via definitiva” sia la “sentenza di applicazione della pena su richiesta” per i medesimi reati comportassero “di diritto l’immediata revoca del beneficio con efficacia retroattiva” e l’obbligo di restituzione “di quanto indebitamente percepito”.

Nonostante l’art. 7, comma 3, menzioni testualmente la rilevanza delle sentenze di applicazione della pena su richiesta solo per la “revoca”, la Cassazione ha sottolineato che la “revoca” in questione non è assimilabile a una revoca per sopravvenienza (che opera ex nunc). Al contrario, il fatto che operi “con efficacia retroattiva” e comporti l’obbligo di restituire “quanto indebitamente percepito” la qualifica come un vero e proprio “annullamento“, con efficacia ex tunc, del provvedimento originario di concessione. In pratica, la legge reputa il beneficio illegittimo fin dall’origine.

Il “requisito di onorabilità” e la funzione della norma

La Corte ha concluso che, alla luce di questa interpretazione, anche l’assenza di sentenze di applicazione della pena su richiesta per i reati previsti dall’art. 7, comma 3, D.L. n. 4/2019, costituisce un particolare “requisito di onorabilità”. Questa previsione mira a circoscrivere l’intervento della solidarietà collettiva in favore di coloro che sono “realmente meritevoli”.

Il legislatore ha esercitato una valutazione discrezionale, non ritenuta arbitraria dalla Cassazione, giustificando che il sostegno solidaristico non debba estendersi a coloro che, con la propria condotta, hanno mancato ai doveri di onestà, lealtà e probità nei confronti della stessa collettività che invocano in aiuto, specie considerando la limitatezza delle risorse disponibili.

Pertanto, è stato ritenuto erroneo da parte dei giudici di merito considerare che la sentenza di applicazione della pena su richiesta non potesse precludere in radice il conseguimento del Reddito di Cittadinanza.

Le implicazioni pratiche della sentenza

Questa pronuncia è di fondamentale importanza perché chiarisce definitivamente che, ai fini dell’accesso al Reddito di Cittadinanza, la sentenza di applicazione della pena su richiesta (patteggiamento) per i reati indicati nella legge ha lo stesso effetto preclusivo di una condanna definitiva. Non è necessario che il beneficio venga prima concesso per poi essere revocato: la condanna (o il patteggiamento) opera come impedimento all’ottenimento sin dalla domanda.

Per i cittadini e per gli enti preposti, questa sentenza fornisce una guida chiara e vincolante sull’interpretazione di uno dei requisiti più sensibili per l’accesso alle prestazioni assistenziali.

Il nostro studio legale resta a disposizione per fornire consulenza e assistenza su queste e altre questioni relative al diritto amministrativo e previdenziale.


Si precisa che il presente articolo ha carattere informativo e non costituisce consulenza legale. Per questioni specifiche, si invita a consultare un professionista qualificato.

DiAnnamaria Palumbo

Premi di produzione e prescrizione contributiva: il principio di competenza prevale sempre

La Cassazione ribadisce che i contributi sui premi di produzione decorrono dalla data di scadenza contrattuale, non dall’effettivo pagamento

Con l’ordinanza n. 15054 del 5 giugno 2025, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha chiarito definitivamente una questione importante per aziende e lavoratori: quando inizia a decorrere il termine di prescrizione per i contributi previdenziali sui premi di produzione pagati in ritardo.

Il caso: un premio del 2004 pagato nel 2013

La vicenda ha avuto origine da un contenzioso tra un dipendente e la società [omissis] per il risarcimento dei danni derivanti da omessa contribuzione su un premio di produzione. Il lavoratore aveva ottenuto con sentenza del 2012 il riconoscimento del diritto al premio di produzione relativo all’anno 2004, che la società aveva poi corrisposto tra gennaio e marzo 2013.

La questione centrale riguardava il momento da cui far decorrere la prescrizione dei contributi previdenziali: la società aveva versato i contributi all’Inps nel maggio 2015, ma l’istituto li aveva rifiutati ritenendoli prescritti. La Corte d’appello di Torino aveva dato ragione alla società, applicando erroneamente il criterio di cassa anziché quello di competenza.

Il principio affermato dalla suprema Corte

Il criterio di competenza non ammette deroghe

La Cassazione ha ribadito con fermezza che il sistema di prelievo contributivo si basa sulla nozione di retribuzione “dovuta” e non su quella effettivamente corrisposta. Questo principio, definito “criterio di competenza”, trova la sua base normativa nelle disposizioni sulla retribuzione contributiva che si sono succedute nel tempo.

Come costantemente affermato dalla Corte, la base imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali resta insensibile agli eventuali inadempimenti del datore di lavoro. I contributi devono essere commisurati non alla retribuzione materialmente erogata, ma a quella che il lavoratore ha diritto di ricevere secondo la normativa di riferimento.

L’errata interpretazione dell’art. 12 della legge n. 153/1969

La Corte d’appello aveva erroneamente interpretato l’art. 12, comma 9, della legge n. 153/1969, che prevede per i premi di produzione l’assoggettamento a contribuzione “nel mese di corresponsione”. I giudici territoriali avevano inteso questa disposizione come riferita al momento dell’effettivo pagamento (criterio di cassa).

La Cassazione ha chiarito che il “mese di corresponsione” è quello stabilito dalla legge o dal contratto, non quello dell’effettivo pagamento. Il criterio resta quindi sempre di competenza, non di cassa. Come precisato dalla giurisprudenza consolidata, questa disposizione non deroga ai principi generali del sistema contributivo.

Le conseguenze pratiche della pronuncia

Per le aziende

La sentenza ha implicazioni significative per la gestione dei premi di produzione:

  • Obbligo contributivo immediato: i contributi sono dovuti dalla data di scadenza contrattuale del premio, indipendentemente dal pagamento effettivo
  • Rischio prescrizione: il ritardo nel pagamento del premio non giustifica il ritardo nel versamento dei contributi
  • Responsabilità risarcitoria: l’omessa contribuzione può comportare danni al lavoratore, anche di natura pensionistica

Per i lavoratori

I lavoratori possono trarre diversi vantaggi da questo orientamento:

  • Tutela della posizione contributiva: i contributi maturano dalla data di competenza, non dal pagamento
  • Diritto al risarcimento: in caso di omessa contribuzione per prescrizione, sussiste il diritto al risarcimento del danno pensionistico
  • Maggiore certezza: la posizione contributiva non dipende dai ritardi aziendali nei pagamenti

Le implicazioni sistematiche

Coerenza del sistema contributivo

La pronuncia conferma la coerenza del sistema previdenziale italiano, che non può essere influenzato dai comportamenti inadempimenti dei datori di lavoro. Il principio di competenza garantisce:

  • Uniformità nell’applicazione delle regole contributive
  • Tutela dei diritti previdenziali dei lavoratori
  • Certezza nei rapporti con gli enti previdenziali

Responsabilità datoriale

Le aziende devono prestare particolare attenzione alla gestione dei premi di produzione, considerando che:

  • L’obbligo contributivo sorge con la maturazione del diritto
  • Il ritardo nel riconoscimento del premio non giustifica il ritardo contributivo
  • La prescrizione dei contributi può comportare l’impossibilità di sanare la posizione del lavoratore

Conclusioni

La sentenza n. 15054/2025 rappresenta un importante richiamo alla corretta applicazione dei principi del sistema contributivo. La Cassazione ha voluto ribadire che il criterio di competenza non ammette eccezioni, nemmeno per particolari tipologie retributive come i premi di produzione.

Per le aziende, la pronuncia impone una gestione più attenta degli aspetti contributivi legati ai premi variabili, evitando di subordinare gli obblighi previdenziali ai tempi effettivi di pagamento. Per i lavoratori, rappresenta un’ulteriore garanzia della tutela dei propri diritti previdenziali.

Il caso sarà ora riesaminato dalla Corte d’appello di Torino, che dovrà verificare se, applicando correttamente il criterio di competenza, i contributi versati nel 2015 su un premio dovuto nel 2005 fossero effettivamente prescritti e, di conseguenza, se sussista il diritto del lavoratore al risarcimento del danno pensionistico.


La sentenza è stata depositata il 5 giugno 2025 e conferma un orientamento consolidato della Cassazione in materia di contributi previdenziali. Per approfondimenti sulla gestione degli aspetti contributivi aziendali, il nostro studio rimane a disposizione per consulenze specialistiche.

DiAnnamaria Palumbo

Indennità di trasferta e contributi previdenziali: i nuovi orientamenti della Cassazione

La Cassazione chiarisce quando le indennità di trasferta sono soggette a contribuzione previdenziale e ribadisce i criteri per valutare gli assetti proprietari coincidenti negli sgravi per nuove assunzioni

Con l’ordinanza n. 15056 del 5 giugno 2025, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha affrontato due questioni di particolare rilevanza per le aziende: il regime contributivo delle indennità di trasferta e i criteri per l’accesso agli sgravi contributivi previsti dalla legge n. 223/1991.

Il caso: indennità di trasferta e valutazione degli assetti proprietari

La vicenda ha avuto origine da un contenzioso tra una società e l’Inps relativo a due distinte pretese contributive. Da un lato, l’istituto richiedeva il versamento di contributi sulle indennità di trasferta corrisposte a un dipendente; dall’altro, contestava il diritto della società agli sgravi contributivi per nuove assunzioni, sostenendo la sussistenza di assetti proprietari coincidenti con le aziende che avevano precedentemente licenziato i lavoratori.

La Corte d’appello di Firenze aveva accolto parzialmente le ragioni della società, escludendo l’obbligo contributivo sulle indennità di trasferta ma confermando la pretesa dell’Inps quanto agli sgravi.

I principi affermati dalla suprema Corte

Assetti proprietari coincidenti: una nozione più ampia del controllo societario

La Cassazione ha confermato un orientamento consolidato secondo cui la valutazione degli “assetti proprietari coincidenti” ai fini degli sgravi contributivi non si limita ai rapporti di controllo tipizzati dall’art. 2359 del codice civile.

Il giudice deve condurre un accertamento di merito che consideri tutti gli elementi sostanziali, inclusi i rapporti familiari e di amicizia tra i soci, quando questi siano finalizzati a operazioni coordinate di ristrutturazione aziendale. L’obiettivo è verificare se l’operazione abbia avuto la finalità di eludere la ratio della disciplina incentivante attraverso licenziamenti e assunzioni privi di reale incidenza positiva sul piano occupazionale.

Nel caso specifico, la Corte territoriale aveva correttamente valorizzato diversi elementi: i rapporti di stretta familiarità tra i soci, la presenza di una socia di maggioranza appena diciottenne, l’identità di sede e attività delle società coinvolte. Da questi indizi, unitariamente considerati, era emerso il quadro di un’operazione preordinata all’elusione normativa.

Indennità di trasferta: non sempre esenti da contribuzione

Il punto più innovativo della pronuncia riguarda il regime contributivo delle indennità di trasferta. La Cassazione ha chiarito che queste somme non sono automaticamente esenti da contribuzione, dovendo il giudice verificare caso per caso il rispetto dei limiti previsti dall’art. 51, comma 5, del d.p.r. N. 917/1986.

I criteri da applicare sono i seguenti:

  • Trasferte nell’ambito comunale: le indennità concorrono sempre a formare reddito (e quindi base contributiva), salvo le spese di trasporto documentate
  • Trasferte fuori comune: concorrono a formare reddito solo per la parte eccedente 90.000 lire giornaliere (150.000 per l’estero)
  • Rimborsi analitici: concorrono a formare reddito oltre le 30.000 lire giornaliere (50.000 per l’estero)

Le implicazioni pratiche per le aziende

La pronuncia ha importanti ricadute operative per la gestione aziendale:

Per le indennità di trasferta, le aziende devono:

  • Documentare accuratamente natura e modalità delle trasferte
  • Verificare il rispetto dei limiti normativi per l’esenzione contributiva
  • Considerare che l’onere della prova dell’esenzione ricade sul datore di lavoro

Per gli sgravi contributivi, occorre prestare attenzione a:

  • Rapporti sostanziali tra le società coinvolte nelle operazioni
  • Finalità reali delle ristrutturazioni aziendali
  • Documentazione dell’effettiva novità dell’operazione sul piano occupazionale

Conclusioni

La sentenza conferma l’approccio sostanzialista della Cassazione nella valutazione delle fattispecie giuslavoristiche. Sia per gli assetti proprietari che per le indennità di trasferta, il giudice deve andare oltre il dato formale per accertare la reale natura dell’operazione o della prestazione.

Per le aziende, questo orientamento impone una maggiore attenzione nella strutturazione delle operazioni e nella documentazione delle voci retributive, considerando che la verifica dell’amministrazione si concentra sempre più sulla sostanza dei rapporti piuttosto che sulla loro forma apparente.


La sentenza è stata depositata il 5 giugno 2025 e sarà disponibile nelle principali banche dati giuridiche. Per approfondimenti sulla materia contributiva e giuslavoristica, il nostro studio rimane a disposizione per consulenze specialistiche.