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DiAnnamaria Palumbo

L’iscrizione all’albo professionale comporta l’obbligo di solidarietà professionale, Cassazione civile sez. lav., 25/04/2025, n. 10908

La recente sentenza della Corte di Cassazione civile, sezione lavoro, n. 10908 del 25 aprile 2025, ha chiarito un importante principio in materia di previdenza dei liberi professionisti. In particolare, la Corte ha stabilito che l’iscrizione all’albo professionale, indipendentemente dalla continuità o occasionalità dell’esercizio della professione e dalla produzione di reddito, impone l’obbligo di solidarietà professionale. Tale obbligo si traduce nel versamento di una contribuzione minima agli enti previdenziali di categoria.

Il caso e la decisione

La vicenda riguarda un geometra che, pur iscritto all’albo professionale, aveva contestato una cartella di pagamento emessa dalla Cassa Italiana di Previdenza ed Assistenza Geometri (CIPAG) relativa agli anni 2009, 2012 e 2013. Il professionista sosteneva di non aver svolto attività professionale continuativa, ma solo occasionale, e di essere iscritto al fondo commercio INPS come socio d’opera di una società, pertanto riteneva di non dover versare i contributi richiesti dalla CIPAG.

Tuttavia, la Corte d’Appello di Bologna aveva respinto la sua opposizione, confermando che la mera iscrizione all’albo comporta l’obbligo di iscrizione alla Cassa di previdenza di categoria e il versamento della contribuzione minima, anche in assenza di attività continuativa o reddito prodotto.

Il ricorso della CIPAG in Cassazione è stato accolto, ribadendo che l’iscrizione all’albo professionale è il requisito decisivo per l’obbligo contributivo, che permane anche in presenza di iscrizione ad altre gestioni previdenziali INPS. La contribuzione minima ha una funzione solidaristica e non è condizionata alla produzione di reddito.

Fondamenti giuridici

La Corte ha richiamato diverse norme e principi, tra cui la legge delega n. 537/93, la legge n. 509/94, la legge n. 335/95 sulla riforma pensionistica, e lo Statuto della CIPAG. Ha sottolineato che le modifiche normative hanno conferito alle Casse previdenziali autonomia nell’individuazione dei soggetti obbligati, in linea con il principio di solidarietà e con l’obiettivo di garantire l’equilibrio finanziario a lungo termine degli enti.

In particolare, la sentenza conferma che:

  • L’iscrizione all’albo professionale comporta l’obbligo di iscrizione alla Cassa previdenziale di categoria.
  • L’obbligo contributivo si applica anche in caso di attività professionale svolta in maniera occasionale o saltuaria.
  • La mancata produzione di reddito non esclude l’obbligo contributivo.
  • L’iscrizione ad altra gestione INPS non esonera dal versamento alla Cassa di categoria.
  • La contribuzione minima ha una funzione solidaristica, senza corrispettività diretta tra contributi versati e prestazioni ricevute.

Implicazioni per i professionisti

Questa pronuncia rappresenta un importante chiarimento per tutti i liberi professionisti iscritti agli albi professionali. Anche chi esercita la professione in modo saltuario o occasionale è tenuto a versare la contribuzione minima alla propria Cassa previdenziale, a prescindere dal reddito prodotto o da eventuali iscrizioni ad altre gestioni previdenziali.

Il principio di solidarietà professionale, sancito dalla Corte, mira a sostenere la sostenibilità finanziaria delle casse di categoria, garantendo un sistema previdenziale equilibrato e duraturo nel tempo.

Professionisti e consulenti dovranno pertanto tenere conto di questi principi nell’ambito della gestione previdenziale, evitando di sottrarsi agli obblighi contributivi che derivano dalla semplice appartenenza all’albo professionale.

DiAnnamaria Palumbo

La disconnessione negata: il lavoro invade la notte

1. Introduzione: il lavoro che non dorme mai
Un’e-mail ricevuta alle 23:18. Una risposta alle 23:20. Un messaggio Slack che notifica un’attività alle 2:05. Scene comuni, spesso normalizzate, in moltissime realtà aziendali. Eppure, in queste dinamiche apparentemente quotidiane si cela la violazione di uno dei diritti fondamentali della persona: il diritto al riposo.

Il diritto alla disconnessione, nella sua espressione giuridica più piena, rappresenta l’ultima frontiera della tutela del tempo del lavoratore nell’era digitale. Nato per proteggere l’integrità psico-fisica del dipendente, si confronta oggi con una realtà in cui gli strumenti digitali e i modelli organizzativi asincroni rendono sempre più labile il confine tra lavoro e vita privata.

2. La nuova patologia dell’iperconnessione
Il termine work bleeding – letteralmente “sanguinamento del lavoro” – descrive bene il fenomeno della sovrapposizione continua tra tempi di vita e tempi di lavoro. Non si tratta più solo di straordinario non retribuito, ma di una forma di disponibilità permanente, spesso implicita, richiesta dal datore o autoinflitta dal lavoratore stesso in nome della performance.

Numerosi studi confermano che l’iperconnessione cronica è una causa rilevante di stress, disturbi del sonno, ansia e burnout. Ma a fronte di questi dati, la cultura del lavoro in molti contesti continua a premiare la reperibilità oltre l’orario, l’efficienza immediata, la “prontezza digitale”.

3. Il diritto alla disconnessione: inquadramento normativo

3.1. Ordinamento italiano
Il diritto alla disconnessione è stato introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento con la Legge n. 81 del 22 maggio 2017, relativa al lavoro agile. L’art. 19 stabilisce che l’accordo tra le parti debba individuare anche le modalità di esercizio del diritto alla disconnessione.

Tuttavia, l’assenza di un dettaglio operativo, la mancata previsione di sanzioni e la non obbligatorietà di un contenuto minimo rendono la norma inefficace nella prassi. Anche il D.Lgs. n. 66/2003, relativo alla durata dell’orario di lavoro, non appare adeguato ad affrontare le sfide del lavoro digitale.

3.2. Livello europeo e comparato
Nel contesto dell’Unione Europea, il Parlamento ha approvato il 21 gennaio 2021 una risoluzione con cui invita la Commissione a presentare una proposta di direttiva sul diritto alla disconnessione, riconoscendo che la mancanza di tale diritto incide sul benessere, la salute e i diritti fondamentali dei lavoratori.

In alcuni Stati membri sono state adottate misure significative:

  • Francia: Legge El Khomri (2016), obbligo per le aziende con più di 50 dipendenti di regolare il diritto alla disconnessione tramite contrattazione collettiva;
  • Spagna: Legge Organica 3/2018 sulla protezione dei dati personali e la garanzia dei diritti digitali;
  • Belgio: Accordi interprofessionali (2018) in materia di diritto al riposo digitale.

4. Profili di responsabilità datoriale

4.1. Responsabilità contrattuale e civile
Il datore di lavoro che non garantisce un adeguato sistema di disconnessione può incorrere in responsabilità contrattuale per inadempimento dell’obbligo di tutela della salute (art. 2087 c.c.) e in responsabilità civile per i danni derivanti da iperconnessione prolungata (danno biologico, esistenziale e patrimoniale).

4.2. Responsabilità amministrativa e penale
La violazione delle norme sull’orario di lavoro (D.Lgs. 66/2003) e sull’obbligo informativo (D.Lgs. 81/2008) può dar luogo a sanzioni amministrative. In ipotesi estreme, in cui il lavoratore subisca conseguenze psico-fisiche rilevanti, si può profilare l’ipotesi di maltrattamenti in ambito lavorativo ex art. 572 c.p.

5. Proposte operative e policy aziendali
Le aziende devono passare da una logica dichiarativa a una logica attuativa. Alcune misure suggerite:

  • Clausole contrattuali specifiche sull’orario di reperibilità;
  • Sistemi automatici di blocco delle comunicazioni (es. fuori orario);
  • Formazione obbligatoria per dirigenti e quadri sul rispetto della disconnessione;
  • Monitoraggio dei carichi di lavoro e delle ore di connessione attraverso strumenti IT;
  • Integrazione del diritto alla disconnessione nei Modelli 231 come presidio del benessere organizzativo.

6. Conclusioni
Il diritto alla disconnessione è un diritto che non si può più ignorare. Non solo perché lo impone la legge, ma perché lo richiede la trasformazione culturale del lavoro contemporaneo.

Nel bilanciamento tra flessibilità organizzativa e dignità della persona, il tempo è diventato la risorsa più esposta a erosione. Ristabilirne i confini non è solo una questione giuridica, ma di civiltà.


Maggio 2025

DiAnnamaria Palumbo

Lavoro straordinario festivo del dipendente pubblico, ammessa la retribuzione anche in caso di autorizzazione implicita (Cassazione Civile Sez. Lav., 21/05/2025, n. 13661)

La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 13661 depositata il 21 maggio 2025, ha affrontato una questione molto dibattuta nel diritto del lavoro pubblico: la retribuzione del lavoro straordinario svolto nei giorni festivi anche in assenza di una specifica autorizzazione formale, purché tale autorizzazione risulti implicita.

Il caso riguardava un gruppo di dipendenti pubblici addetti ai servizi di vigilanza presso il Palazzo Reale di Caserta, che avevano richiesto il riconoscimento del diritto al pagamento delle ore di lavoro straordinario svolte fino al 31 dicembre 2017. Mentre la Corte d’Appello di Napoli aveva riconosciuto il diritto al pagamento dello straordinario nei giorni feriali, aveva invece rigettato la domanda relativa alle ore festive, ritenendo mancante una specifica autorizzazione.

La Cassazione ha riformato questo orientamento, riaffermando e chiarendo alcuni principi fondamentali:

  1. Autorizzazione implicita al lavoro straordinario
    Non è necessario che l’autorizzazione al lavoro straordinario, anche festivo, sia espressa in modo formale e specifico. Può essere sufficiente che sia implicita, cioè richiesta, conosciuta o tacitamente accettata dal datore di lavoro. L’autorizzazione implicita si desume dal contesto e dalle circostanze che dimostrano la consapevolezza e il consenso del datore di lavoro.
  2. Onere della prova e valutazioni del giudice
    L’accertamento dell’esistenza o meno di un’autorizzazione implicita rientra nelle valutazioni istruttorie e di merito, e non può essere escluso sulla base della mancata contestazione di fatti storici. L’autorizzazione può essere dedotta dal complesso degli elementi probatori, inclusa l’organizzazione del servizio e la necessità dell’attività lavorativa nei giorni festivi.
  3. Principi giurisprudenziali consolidati
    La Cassazione ha richiamato la propria giurisprudenza recente (Cass. 27 luglio 2022, n. 23506; Cass. 23 giugno 2023, n. 18063) secondo cui il lavoro straordinario è compensabile anche se l’autorizzazione è illegittima o contraria a disposizioni contrattuali, purché il lavoro non sia svolto insciente o prohibente domino, ossia senza il consenso del datore di lavoro.
  4. Rinvio per nuovo esame
    La sentenza impugnata è stata cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, affinché valuti se il lavoro straordinario festivo svolto rientri effettivamente nelle condizioni per essere riconosciuto e retribuito, in conformità con la contrattazione collettiva applicabile.

In conclusione, la decisione della Cassazione rappresenta un importante passo avanti nella tutela dei diritti dei dipendenti pubblici, sottolineando che il riconoscimento economico del lavoro straordinario festivo non può essere negato per il solo fatto che non vi sia stata un’autorizzazione formale espressa, se questa può essere desunta implicitamente dalle circostanze. Ciò garantisce un più equo bilanciamento tra le esigenze organizzative della pubblica amministrazione e i diritti dei lavoratori.


Riferimenti normativi e giurisprudenziali

  • Cass. 27 luglio 2022, n. 23506
  • Cass. 23 giugno 2023, n. 18063
  • Art. 26 CCNL comparto Funzioni Centrali 16 febbraio 1999
  • Artt. 115, 116, 132 c.p.c.
  • Art. 360 c.p.c.
  • Art. 36 e 111 Costituzione Italiana

La sentenza conferma l’importanza di un approccio sostanziale nella valutazione delle autorizzazioni al lavoro straordinario, anche in ambito pubblico, e chiarisce che il diritto alla retribuzione può fondarsi su una autorizzazione implicita, purché il lavoro non sia svolto in modo arbitrario né clandestino.

DiAnnamaria Palumbo

Rassegna Maggio 2025

Ecco un riepilogo delle pronunce più significative segnalate nel blog:

  • Cassazione civile, sezione lavoro, n. 12504 dell’11 maggio 2025: Questa sentenza ha confermato l’obbligo del datore di lavoro di garantire condizioni di lavoro rispettose della dignità del lavoratore. Il caso specifico riguardava un dipendente a cui era stato negato di lasciare la postazione per recarsi ai servizi igienici, portandolo a urinarsi addosso. La Corte ha rigettato il ricorso dell’azienda, sottolineando che l’impellenza fisiologica è una necessità non eccezionale e che l’organizzazione aziendale deve prevedere modalità più rispettose per gestire tali esigenze. La sentenza rafforza il principio che il datore di lavoro deve tutelare non solo la sicurezza fisica ma anche la dignità morale del lavoratore, adottando misure preventive e organizzative adeguate per evitare condizioni umilianti.
  • Cassazione Civile Sezione Lavoro, n. 12204 dell’8 maggio 2025: Riguardo all’attività forense degli insegnanti pubblici, la Corte ha chiarito che l’autorizzazione a svolgere la libera professione implica un divieto implicito di patrocinare cause in conflitto di interessi contro l’Amministrazione di appartenenza. Tale divieto è inderogabile. Tuttavia, nel caso specifico, la Cassazione ha rigettato il ricorso del Ministero, confermando la decisione della Corte d’Appello, poiché il dirigente scolastico, pur avendo richiesto chiarimenti, non aveva modificato o revocato l’autorizzazione, generando un ragionevole affidamento nel docente sulla legittimità della sua condotta. La sentenza ribadisce il principio dell’incompatibilità rispetto al conflitto di interessi, ma evidenzia come l’ambiguità del comportamento datoriale possa incidere sulla valutazione disciplinare.
  • Cassazione Civile, Sez. Lavoro, n. 12128/2025 (depositata l’8 maggio 2025): In materia di demansionamento nel pubblico impiego privatizzato, la Corte ha confermato che l’assegnazione a mansioni inferiori è consentita a condizione che non siano completamente estranee alla professionalità del lavoratore, che sussista un’obiettiva esigenza organizzativa o di sicurezza, e che la richiesta avvenga in via marginale rispetto alle attività qualificanti o, se non marginale, meramente occasionale. La Cassazione ha rigettato il ricorso di una ASL, confermando che l’adibizione “costante e sistematica” e “per buona parte della giornata lavorativa” di un’infermiera a mansioni di OSS era illegittima, anche se le mansioni proprie erano svolte in via prevalente. Il ricorso sistematico e non marginale a mansioni inferiori viola di per sé il diritto alla professionalità.
  • Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 12270 depositata il 9 maggio 2025: In caso di licenziamento di un lavoratore disabile per sopravvenuta inidoneità alle mansioni, la Corte ha ribadito che grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver compiuto ogni sforzo ragionevole per evitare il recesso, adottando “accomodamenti ragionevoli”. L’obbligo di accomodamento ragionevole va oltre il mero repechage tradizionale e richiede una ricerca attiva di soluzioni organizzative appropriate. La nozione di “handicap” o “disabilità” è intesa in senso ampio, includendo condizioni patologiche che comportino una limitazione duratura. La Corte ha confermato che non è sufficiente allegare l’assenza di posti disponibili; il datore deve provare uno “sforzo diligente ed esigibile” per trovare una soluzione.
  • Cassazione civile sez. lav., n. 12269 del 9 maggio 2025: La Corte ha ribadito che le azioni collettive organizzate dai lavoratori, anche se non configurabili come sciopero formale, rientrano nell’ambito dei diritti costituzionalmente garantiti (art. 39 Cost.) e non possono essere sanzionate disciplinarmente. La libertà sindacale include la scelta delle modalità di azione collettiva, e il diritto di sciopero è solo una delle possibili forme di lotta. Le proteste collettive volte a difendere interessi collettivi, purché non illecite o violente, sono protette.
  • Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 12518 depositata il 12 maggio 2025: Sul tema dello straining, la Corte ha chiarito l’importanza fondamentale della valutazione del contesto specifico. Lo straining si configura in presenza di comportamenti stressogeni scientemente attuati, anche se limitati nel numero, che determinano una modificazione negativa e permanente della situazione lavorativa. Tuttavia, la Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello che, nel caso specifico esaminato, non aveva ravvisato un comportamento stressogeno tale da configurare straining, sottolineando che non basta lamentare una generica situazione di stress o un singolo episodio spiacevole, ma è necessario provare la sussistenza di comportamenti specifici del datore di lavoro che siano scientemente stressogeni (o oggettivamente tali) e che abbiano causato un danno, valutando attentamente la gravità, l’impatto personale e professionale e tutte le altre circostanze del caso concreto.
  • Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 12971 del 14 maggio 2025: Riguardo al premio alla nascita o adozione erogato dall’INPS, la Corte ha dichiarato discriminatoria per motivi di nazionalità la condotta dell’INPS che aveva limitato l’erogazione del premio solo a donne con specifici permessi di soggiorno UE. La Corte ha rigettato il ricorso dell’INPS, affermando che le associazioni ricorrenti hanno piena legittimazione ad agire per discriminazioni collettive basate sulla nazionalità anche in ambito extralavorativo. Ha confermato che le circolari INPS avevano illegittimamente modificato i requisiti di legge, creando una disparità di trattamento ingiustificata. Ha ribadito il principio che le circolari amministrative non possono introdurre requisiti non previsti dalla legge.
  • Cassazione civile sez. lav., n. 12973 del 14 maggio 2025: La Corte ha riconosciuto il diritto alla maggiorazione contributiva prevista per i lavoratori invalidi (con invalidità superiore al 74%) che ricoprono incarichi sindacali, anche per i periodi di aspettativa sindacale non retribuita. La decisione si basa sul fatto che l’aspettativa sindacale è assimilata al lavoro effettivo ai fini previdenziali e che negare tale maggiorazione durante l’aspettativa sarebbe discriminatorio e disincentiverebbe l’attività sindacale da parte dei lavoratori invalidi.
  • Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza del 5 maggio 2025 n. 11690: In materia di prescrizione dei crediti previdenziali, la Corte ha ribadito che la prescrizione già maturata ha efficacia estintiva del credito e non può essere rinunciata tramite atti impliciti come la richiesta di rateizzazione del debito. Le istanze di rateizzazione possono interrompere la prescrizione solo per crediti non ancora prescritti. La Corte ha cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa per un nuovo esame.
  • Cass. Civ., Sez. Lav., 3 maggio 2025 n. 11631: Riguardo alla sicurezza sul lavoro e alla responsabilità per danno alla salute, la Corte ha precisato il riparto degli oneri probatori. Il lavoratore che lamenta un danno deve allegare e provare l’esistenza del danno, la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso causale tra danno e prestazione lavorativa. Solo dopo che il lavoratore ha assolto a questo onere, grava sul datore di lavoro la prova di aver adottato tutte le cautele necessarie. Non è ammessa un’inversione dell’onere della prova che scarichi sul datore di lavoro la dimostrazione della diligenza senza elementi concreti di rischio allegati dal lavoratore.
  • Cass. Civ., Sez. Lav., 3 maggio 2025 n. 11636: Sul risarcimento del danno da perdita di chance in procedure concorsuali sanitarie, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso di un medico, confermando che è necessaria una prova rigorosa non solo dell’esistenza di una concreta possibilità di ottenere l’incarico, ma anche del nesso causale tra il comportamento datoriale e il danno subito. Ha sottolineato l’importanza di un’adeguata allegazione probatoria da parte del ricorrente.
  • Cassazione civile, Sezione Lavoro, n.10648 del 23 aprile 2025: Riguardo alla nozione di orario di lavoro e ai periodi di reperibilità, la Corte, in linea con il diritto UE, ha ribadito che se durante i periodi di reperibilità il lavoratore è obbligato a rimanere fisicamente presente sul luogo indicato dal datore di lavoro, il tempo trascorso deve essere considerato orario di lavoro. Questo implica che tali periodi debbano essere retribuiti in modo proporzionato e dignitoso.
  • Cassazione, Sezione Lavoro, ord. n. 10612 del 23 aprile 2025: Sulla valutazione dei comportamenti extralavorativi penalmente rilevanti, la Corte ha ribadito che il principio di presunzione di innocenza in ambito penale non si applica automaticamente al rapporto di lavoro. Ai fini del licenziamento per giusta causa, è sufficiente che i fatti contestati siano di gravità tale da compromettere il rapporto fiduciario, senza necessità di una condanna penale definitiva.
  • Cassazione, Sez. Lav., n. 10822 del 24 aprile 2025: In tema di controlli difensivi e licenziamento, la Corte ha ribadito che i controlli tramite telecamere o indagini personali sono legittimi solo se basati su un “fondato sospetto” di comportamenti illeciti e nel rigoroso rispetto dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori e della normativa sulla privacy. La perquisizione personale senza consenso è illegittima. Le prove acquisite in violazione di tali norme sono inutilizzabili.
  • Cassazione civile sez. lav., n.10864 del 24 aprile 2025: Sul diritto di critica e la tutela del whistleblower, la Corte ha riconosciuto che una segnalazione finalizzata a verificare il rispetto dei protocolli di sicurezza, anche se con toni accesi, rientra nell’ambito della legittima attività di whistleblowing meritevole di protezione, se non presenta intenti lesivi o espressioni offensive gratuite. Il diritto di critica deve rispettare criteri di continenza formale e sostanziale, pertinenza e veridicità.
  • Cassazione Civile, Sez. Lav., Ord. n. 10969 del 26 aprile 2025: La Corte ha confermato che i contratti di collaborazione coordinata e continuativa privi di un progetto specifico si convertono automaticamente in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato (ai sensi dell’art. 69 D.Lgs. 276/2003). Tale conversione opera retroattivamente, e al lavoratore spettano le differenze retributive calcolate sull’effettivo orario di lavoro svolto.
  • Corte di Cassazione, ordinanza n. 11190 del 28 aprile 2025: In tema di pensione di reversibilità per il figlio superstite maggiorenne inabile, la Corte ha fornito chiarimenti sul requisito della “vivenza a carico“. Ha precisato che non implica necessariamente la convivenza materiale né una totale dipendenza economica, ma è necessario dimostrare che il genitore provvedeva al mantenimento del figlio in modo continuativo e prevalente. L’onere della prova spetta al figlio richiedente.

Infine, occorre menzionare anche il provvedimento del Garante per la Protezione dei Dati Personali del 13 marzo 2025, discusso in un articolo di maggio del nostro blog. Questo provvedimento ha dichiarato illegittima la geolocalizzazione dei dipendenti in smart working da parte di un’azienda regionale che aveva utilizzato tali dati senza base giuridica adeguata e per finalità disciplinari, in violazione del GDPR e della disciplina del lavoro agile.

È stato anche evidenziato, in un articolo del 19 maggio, l’orientamento della giurisprudenza (inclusa la Cassazione) che ha riconosciuto il diritto alla Carta del Docente anche per i docenti precari e il personale educativo, basandosi sui principi di parità di trattamento. Le azioni legali per ottenere tale riconoscimento sono possibili sia in forma specifica che risarcitoria. Si attendono possibili novità legislative per il 2025-2026 che potrebbero estendere normativamente il beneficio.

Questa rassegna sintetizza i principali temi e le pronunce giurisprudenziali più rilevanti del mese di maggio (e fine aprile).

DiAnnamaria Palumbo

Riconoscimento della maggiorazione contributiva ai lavoratori invalidi in aspettativa sindacale, Cassazione civile sez. lav., 14/05/2025, n. 12973

La sentenza n. 12973 della Corte di Cassazione, sezione lavoro, depositata il 14 maggio 2025, rappresenta un importante punto di riferimento in materia di tutela previdenziale per i lavoratori invalidi che ricoprono incarichi sindacali a livello provinciale o nazionale. La Corte ha infatti riconosciuto il diritto alla maggiorazione contributiva, prevista dall’art. 80, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, anche per i periodi di aspettativa sindacale non retribuita, garantendo così la piena valorizzazione del percorso contributivo di questi lavoratori.

Fatti di causa

Il caso trae origine dal ricorso del signor Po.Se., lavoratore invalido con un grado di invalidità superiore al 74%, che ha chiesto il riconoscimento della maggiorazione contributiva per i periodi di aspettativa sindacale goduti in virtù dell’art. 31 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori). La Corte d’Appello di Milano aveva accolto tale richiesta, riformando la sentenza di primo grado, ma l’INPS aveva proposto ricorso per cassazione.

Motivazioni della Corte

La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso dell’INPS affermando che la maggiorazione contributiva spetta anche durante i periodi di aspettativa sindacale non retribuita, a condizione che sussistano le condizioni di invalidità previste dalla legge. La Corte ha sottolineato come l’aspettativa sindacale, pur comportando la sospensione temporanea del rapporto di lavoro, non si traduca in una mera assenza di attività, poiché il lavoratore continua a svolgere funzioni sindacali che hanno origine dal rapporto di lavoro stesso.

In particolare, la Corte ha evidenziato che:

  • L’aspettativa sindacale è assimilata al lavoro effettivo ai fini previdenziali, come previsto dall’art. 31, terzo comma, dello Statuto dei Lavoratori, che consente il riconoscimento dei periodi di aspettativa ai fini pensionistici e per le prestazioni di malattia.
  • Il beneficio della maggiorazione contributiva ha una finalità preventiva e protettiva, volta a tutelare i lavoratori con invalidità grave che svolgono attività particolarmente usuranti, ed è quindi coerente estenderlo anche ai periodi in cui il lavoratore è in aspettativa sindacale.
  • La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 171 del 2002, ha riconosciuto la necessità di tutelare i lavoratori in aspettativa sindacale perché sottoposti a rischi professionali analoghi a quelli delle categorie protette.
  • Negare la maggiorazione contributiva durante l’aspettativa sindacale avrebbe effetti discriminatori e disincentiverebbe l’assunzione di incarichi sindacali da parte dei lavoratori invalidi, violando i principi costituzionali di tutela del lavoro e della salute.

Principio di diritto

La Corte ha quindi affermato il seguente principio di diritto: il beneficio della maggiorazione contributiva di cui all’art. 80, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, spetta anche ai lavoratori con invalidità superiore al 74% che ricoprano cariche sindacali provinciali o nazionali, per tutta la durata dell’aspettativa sindacale non retribuita prevista dall’art. 31, secondo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300.

Implicazioni pratiche

Questa pronuncia garantisce una tutela previdenziale più completa e coerente per i lavoratori invalidi impegnati nell’attività sindacale, assicurando che il loro percorso contributivo non subisca penalizzazioni durante l’aspettativa sindacale. Si tratta di un importante riconoscimento che valorizza il ruolo fondamentale dei rappresentanti sindacali anche in condizioni di salute particolarmente svantaggiate e contribuisce a promuovere un ambiente di lavoro più inclusivo e rispettoso dei diritti dei lavoratori invalidi.

DiAnnamaria Palumbo

Sicurezza sul lavoro e riparto degli oneri di allegazione e prova nella responsabilità per danno alla salute (Cassazione Civile Sez. Lavoro, 03/05/2025, n. 11631)

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11631 del 3 maggio 2025, ha delineato importanti principi in materia di sicurezza sul lavoro e di riparto degli oneri probatori tra lavoratore e datore di lavoro nella responsabilità per danni alla salute derivanti dall’attività lavorativa.

Il caso riguarda la richiesta di risarcimento da parte degli eredi di un lavoratore deceduto per neoplasia polmonare, presumibilmente causata dall’esposizione a fumi cancerogeni durante lo svolgimento di mansioni di tecnico di laboratorio e saltuarie operazioni di saldatura. La Corte d’Appello di Roma aveva respinto la domanda, ritenendo insufficiente la prova del nesso causale tra l’attività lavorativa e la malattia.

Principi affermati dalla Cassazione

  1. Obbligo di prevenzione e specificità del rischio

L’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare non solo le misure di sicurezza tassativamente prescritte dalla legge per il tipo di attività, ma anche tutte le ulteriori misure necessarie in relazione alla specificità del rischio concreto. La sicurezza del lavoratore è un bene costituzionalmente tutelato dall’art. 41 Cost.

  1. Onere della prova a carico del lavoratore

Il lavoratore che lamenta un danno alla salute a causa dell’attività lavorativa deve allegare e provare:

  • l’esistenza del danno;
  • la nocività dell’ambiente di lavoro;
  • il nesso causale tra danno e prestazione lavorativa.

Solo una volta assolto questo onere, grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il danno e che la malattia non deriva da inosservanza degli obblighi di sicurezza.

  1. Indici della nocività

Gli indici della nocività che il lavoratore deve indicare sono i concreti fattori di rischio, circostanziati in relazione alle modalità della prestazione lavorativa, e non meri elementi astratti o presuntivi.

Applicazione al caso concreto

Nel caso in esame, la Corte ha confermato che il lavoratore e i suoi eredi non hanno fornito prova adeguata della nocività specifica del luogo di lavoro e del nesso causale tra la neoplasia polmonare e l’attività lavorativa. Di conseguenza, l’onere di dimostrare l’adozione delle misure di sicurezza da parte del datore di lavoro non è mai scattato.

La Corte ha inoltre chiarito che non è ammissibile un’inversione dell’onere della prova che scarichi sul datore di lavoro l’obbligo di dimostrare a prescindere la propria diligenza, senza che il lavoratore abbia prima allegato elementi concreti di rischio.

Conclusioni

La sentenza n. 11631/2025 ribadisce e precisa il corretto riparto degli oneri probatori nei giudizi per danni alla salute da causa lavorativa, sottolineando la necessità per il lavoratore di fornire una prova specifica e circostanziata del rischio e del nesso causale, condizione essenziale per attivare la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c.

Questo orientamento rafforza la tutela della sicurezza sul lavoro, imponendo al datore di lavoro un obbligo di diligenza ampio ma equamente bilanciato rispetto all’onere probatorio gravante sul lavoratore.

Per approfondimenti e aggiornamenti sulle normative e giurisprudenza in materia di sicurezza sul lavoro, continuate a seguire il nostro blog.

DiAnnamaria Palumbo

L’attività forense degli insegnanti pubblici e i limiti del conflitto di interessi (Cassazione Civile Sezione Lavoro, 08/05/2025, n. 12204)

La recente sentenza della Corte di Cassazione civile, Sezione Lavoro, n. 12204 dell’8 maggio 2025, ha chiarito importanti aspetti relativi all’esercizio dell’attività forense da parte degli insegnanti della scuola pubblica, sottolineando le condizioni e i limiti entro cui tale attività può essere svolta senza incorrere in sanzioni disciplinari.

Il caso e la sanzione impugnata

Il procedimento trae origine dalla sanzione disciplinare di sospensione per dieci giorni irrogata dal Ministero dell’Istruzione e del Merito nei confronti di un docente che, autorizzato allo svolgimento dell’attività forense, aveva patrocinato cause anche contro lo stesso Ministero, suo datore di lavoro. La Corte d’Appello di Bologna aveva dichiarato illegittima la sanzione, ritenendo che, in assenza di limitazioni specifiche nell’autorizzazione concessa dal dirigente scolastico, non fosse vietato patrocinare cause contro l’Amministrazione di appartenenza. Inoltre, la Corte territoriale aveva valutato che la richiesta di chiarimenti avanzata dal dirigente scolastico non si era tradotta in una revoca o modifica del provvedimento autorizzativo, permettendo al docente di ritenere le sue spiegazioni soddisfacenti.

Il quadro normativo di riferimento

L’articolo 508, comma 15, del Decreto Legislativo n. 297 del 1994, consente ai docenti di esercitare libere professioni, incluso l’esercizio della professione forense, previa autorizzazione del direttore didattico o del preside, purché tale attività non pregiudichi l’adempimento delle funzioni docente e sia compatibile con l’orario di insegnamento e di servizio.

Tuttavia, il quadro normativo più ampio evidenzia un principio generale di incompatibilità tra attività professionale e pubblico impiego, come sancito dall’art. 60 del D.P.R. n. 3/1957 e dall’art. 53 del D.Lgs. n. 165/2001. Questo principio è rafforzato dall’esigenza di evitare conflitti di interesse, espressamente richiamati in più disposizioni legislative, che vietano lo svolgimento di attività che possano interferire con i doveri istituzionali e la fedeltà dovuta alla Pubblica Amministrazione.

Il principio del divieto di conflitto di interessi

La Corte ha ribadito che l’autorizzazione all’attività forense implica un divieto implicito di patrocinare cause in conflitto di interessi, cioè vertenze promosse o da promuoversi contro l’Amministrazione di appartenenza. Tale divieto è inderogabile e la sua violazione può configurare inadempimento e illecito disciplinare.

La motivazione del rigetto del ricorso

Nonostante la chiarezza del principio, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del Ministero, confermando la decisione della Corte d’Appello. Il motivo è da ricercarsi nelle specifiche circostanze del caso, in cui il dirigente scolastico, pur avendo richiesto chiarimenti sul patrocinio di cause contro l’Amministrazione, non aveva modificato o revocato l’autorizzazione originaria, lasciando al docente un ragionevole affidamento sulla legittimità della sua condotta.

Inoltre, la Corte territoriale ha valutato che l’inerzia del dirigente scolastico – soprattutto a seguito di un episodio precedente nel quale al docente era stata irrogata una censura per analogo comportamento – aveva indotto il docente a ritenere possibile proseguire nell’attività forense anche in vertenze riguardanti la scuola pubblica.

Conclusioni

Questa sentenza rappresenta un importante punto di riferimento per il personale docente che intenda svolgere attività libero-professionali, in particolare l’attività forense. Pur riconoscendo la possibilità di esercitare tale attività previa autorizzazione, la Corte ha ribadito con fermezza che essa non può mai configurare un conflitto di interessi nei confronti dell’Amministrazione di appartenenza.

Al tempo stesso, il caso dimostra che, in presenza di un comportamento ambiguo o non chiaro da parte del dirigente scolastico, il docente può fondatamente confidare in un tacito consenso, il che può incidere sulla valutazione della colpevolezza in sede disciplinare.

In definitiva, gli insegnanti devono sempre vigilare sul rispetto del principio di incompatibilità e adottare comportamenti trasparenti e cautelativi, tenendo conto che l’autorizzazione all’attività forense comporta un limite implicito e inderogabile rispetto al conflitto di interessi.


Riferimento sentenza:
Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 12204, 8 maggio 2025 (udienza 6 febbraio 2025, deposito 8 maggio 2025).

DiAnnamaria Palumbo

Tutela costituzionale delle forme collettive di lotta sindacale e divieto di sanzioni disciplinari per l’astensione dal lavoro (Cassazione civile sez. lav., 09/05/2025, n. 12269)

La sentenza n. 12269 della Corte di Cassazione civile, sezione lavoro, depositata il 9 maggio 2025, ribadisce con forza il principio secondo cui le azioni collettive organizzate dai lavoratori, anche se non configurabili come sciopero formale, rientrano nell’ambito dei diritti costituzionalmente garantiti e, pertanto, non possono essere sanzionate disciplinarmente dal datore di lavoro.

I fatti e il contesto

La vicenda trae origine dal licenziamento disciplinare intimato dalla società di trasporti, datrice di lavoro, a un lavoratore, per aver effettuato un turno di lavoro diverso da quello disposto dall’azienda. La Corte di Appello di Napoli, riformando la sentenza di primo grado, annullò tale licenziamento applicando la tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. La Corte ritenne che la condotta del lavoratore non configurasse una forma di sciopero, ma si inserisse nelle previsioni di un contratto collettivo che punisce con sanzioni conservative l’inosservanza delle istruzioni lavorative, escludendo però un’insubordinazione grave.

Le questioni giuridiche

La società impugnò la sentenza, mentre il lavoratore presentò ricorso incidentale, sostenendo che la condotta in questione fosse una forma di protesta collettiva tutelata come diritto di sciopero atipico. Il punto nodale da risolvere riguardava la qualificazione giuridica della protesta messa in atto da undici lavoratori che si erano astenuti dal rispettare il turno di lavoro a scorrimento, eseguendo le mansioni in orari diversi e senza percepire l’indennità prevista.

La decisione della Cassazione

La Corte di Cassazione ha dato prevalenza al ricorso incidentale del lavoratore, affermando che la protesta collettiva, pur non configurandosi come sciopero nel senso tecnico (perché non vi è stata astensione totale o parziale dal lavoro e la prestazione è stata comunque svolta e retribuita), rientra comunque fra le forme di autotutela collettiva garantite dalla Costituzione (art. 39) e dalle fonti sovranazionali (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Carta Sociale Europea, Carta Comunitaria Europea dei Diritti Sociali Fondamentali dei Lavoratori).

La Corte ha sottolineato che la libertà sindacale comprende anche la scelta delle modalità di azione collettiva e che il diritto di sciopero è solo una delle possibili forme di lotta. L’azione collettiva concreta posta in essere dai lavoratori, volta a contestare la decisione datoriale di sopprimere un’indennità contrattuale, si colloca nel novero delle azioni protette, purché non sfoci in comportamenti illeciti o violenti.

Inoltre, la sentenza richiama la giurisprudenza consolidata secondo cui i licenziamenti intimati per motivi discriminatori o ritorsivi in relazione ad attività sindacali o collettive sono nulli ai sensi dell’art. 4 della legge n. 604/1966, estendendo la tutela anche alle forme di protesta collettiva atipiche.

Implicazioni pratiche e conclusioni

La pronuncia della Corte di Cassazione ha un rilevante impatto pratico, poiché riconosce e tutela le forme di lotta collettiva anche quando non coincidono con lo sciopero formale. Questo significa che i lavoratori possono organizzare proteste collettive, quali variazioni concordate nell’orario di lavoro, senza temere sanzioni disciplinari o licenziamenti, a patto che tali azioni siano orientate alla difesa di interessi collettivi e si svolgano nel rispetto dei limiti imposti dall’ordine pubblico e dalla buona fede.

In definitiva, la sentenza n. 12269/2025 rappresenta un importante rafforzamento della tutela costituzionale della libertà sindacale e del diritto di azione collettiva, riconoscendo che la pluralità delle forme di lotta sindacale costituisce una componente essenziale della democrazia industriale e della tutela dei diritti dei lavoratori.

Per approfondimenti e documenti correlati, si rimanda ai testi normativi citati e alle pronunce giurisprudenziali richiamate nella sentenza.

DiAnnamaria Palumbo

Il datore di lavoro ha l’obbligo di garantire condizioni di lavoro rispettose della dignità del lavoratore (Cassazione civile , sez. lav. , 11/05/2025 , n. 12504)

La sentenza della Cassazione civile, sezione lavoro, n. 12504 dell’11 maggio 2025 rappresenta un importante punto di riferimento sul tema della tutela della dignità del lavoratore all’interno del contesto lavorativo. La Corte ha confermato la condanna dell’azienda datrice di lavoro a risarcire un dipendente per un evento lesivo della sua dignità, sancendo l’obbligo del datore di lavoro di garantire condizioni di lavoro rispettose della persona, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile.

Il caso ha avuto origine da un episodio in cui un lavoratore, durante il turno, ha avvertito un bisogno fisiologico urgente ma non è stato autorizzato a lasciare la postazione per recarsi ai servizi igienici, secondo le disposizioni aziendali che richiedevano l’autorizzazione preventiva e la sostituzione da parte di un Team Leader. Nonostante ripetuti tentativi di richiedere il permesso tramite il dispositivo di chiamata/emergenza, il dipendente non ha ottenuto il consenso. Giunto al limite della resistenza, ha lasciato la postazione e si è diretto verso il bagno, non riuscendo però ad evitare di urinarsi addosso.

Successivamente, il lavoratore ha chiesto di potersi cambiare in infermeria, richiesta negata, e ha dovuto aspettare la pausa per cambiarsi in un locale visibile ad altri colleghi, comprese donne, subendo così una grave lesione della sua dignità personale.

La Corte di appello di L’Aquila aveva già riconosciuto la responsabilità della società per mancata diligenza nella predisposizione di misure idonee a prevenire situazioni lesive per il lavoratore. Questa decisione è stata confermata dalla Cassazione, che ha rigettato tutti i motivi di ricorso presentati dall’azienda datrice di lavoro, sottolineando come l’impellenza fisiologica del lavoratore fosse una necessità non eccezionale e che l’organizzazione aziendale doveva prevedere modalità più rispettose per gestire tali esigenze.

L’importanza di questa sentenza risiede nell’affermazione chiara e netta del principio secondo cui il datore di lavoro ha l’obbligo di tutelare non solo la sicurezza fisica ma anche la dignità morale del lavoratore, adottando misure preventive e organizzative adeguate per evitare che la persona si trovi in condizioni umilianti o degradanti. Il risarcimento di 5.000 euro, previsto come danno non patrimoniale, rappresenta un riconoscimento concreto del danno subito.

In conclusione, questa pronuncia rafforza il quadro normativo e giurisprudenziale che impone alle aziende di evitare ogni forma di comportamento o organizzazione del lavoro che possa ledere la dignità del dipendente. Garantire un ambiente di lavoro rispettoso è un dovere inderogabile per il datore, che deve adottare tutte le cautele necessarie per prevenire situazioni di disagio e umiliazione, tutelando così la persona nella sua integrità complessiva.

DiAnnamaria Palumbo

Premio alla nascita: le prestazioni sociali dell’INPS non possono essere discriminatorie. Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 12971 del 14 maggio 2025

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12971 depositata il 14 maggio 2025, ha affrontato un caso di discriminazione per motivi di nazionalità riguardante l’erogazione di un premio alla nascita o all’adozione, previsto dall’art. 1, comma 353, della legge 11 dicembre 2016, n. 232. Il contenzioso ha avuto origine dalla decisione della Corte d’Appello di Milano che aveva confermato il giudizio del Tribunale, dichiarando discriminatoria la condotta dell’INPS, che aveva introdotto requisiti non previsti dalla legge e legati alla nazionalità per la concessione del premio.

Fatti di causa
Nel caso di specie, l’INPS aveva limitato l’erogazione del premio alle donne in possesso di specifici permessi di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, escludendo così molte donne straniere presenti in Italia. Le associazioni ricorrenti, quali A.P.N. Avvocati per niente Onlus, Fondazione Pi.Gu., ASGI e altre, avevano contestato la legittimità di tale comportamento, ritenendolo discriminatorio per motivi di nazionalità.

La Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 617 del 2018, aveva rigettato il ricorso dell’INPS, confermando la natura discriminatoria della condotta e riconoscendo la legittimazione ad agire delle associazioni ricorrenti sulla base di precedenti giurisprudenziali della Cassazione.

Motivi del ricorso e decisione della Cassazione
L’INPS ha impugnato la sentenza d’appello con due motivi principali:

  1. Contestazione della legittimazione ad agire delle associazioni ricorrenti per discriminazione collettiva fondata sulla nazionalità, sostenendo che tale legittimazione sarebbe limitata alle sole discriminazioni in ambito lavorativo o per motivi razziali ed etnici, escludendo quindi i casi extralavorativi come quello in esame.
  2. Contestazione della qualificazione come discriminatoria della condotta INPS, argomentando che le circolari adottate dall’Istituto avevano dato attuazione corretta alla normativa primaria e che la differenziazione basata sul possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo fosse giustificata da ragioni di politica sociale e da precedenti normative.

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, affermando che:

  • Le associazioni ricorrenti hanno piena legittimazione ad agire per discriminazioni collettive fondate sulla nazionalità, anche in ambito extralavorativo, sulla base di una interpretazione sistematica delle norme vigenti (D.Lgs. n. 215/2003, D.Lgs. n. 286/1998) e della giurisprudenza consolidata, anche europea. La discriminazione per nazionalità è equiparata, in termini di tutela giurisdizionale, ad altre forme di discriminazione e non può essere esclusa la legittimazione collettiva ad agire.
  • Le circolari INPS che hanno introdotto limitazioni nel riconoscimento del premio, basate sul possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, hanno illegittimamente modificato i requisiti previsti dalla legge primaria, creando una disparità di trattamento ingiustificata e discriminatoria nei confronti delle donne straniere non in possesso di tale permesso.
  • Il principio di parità di trattamento previsto dal diritto dell’Unione Europea e la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE escludono deroghe arbitrarie e giustificano una tutela efficace contro discriminazioni di questo tipo.
  • L’errore eventualmente commesso dall’INPS nell’interpretazione della normativa non è scusabile perché la legge non prevede alcun requisito relativo alla nazionalità o al tipo di permesso di soggiorno per la concessione del premio.

La sentenza conferma la necessità di rispettare i principi costituzionali e comunitari di non discriminazione e parità di trattamento, anche in ambito extralavorativo e in relazione a prestazioni sociali come il premio alla nascita. Essa sottolinea l’importanza della legittimazione collettiva ad agire contro discriminazioni fondate sulla nazionalità, riconoscendo alle associazioni dedicate una funzione essenziale di tutela dei diritti collettivi.

Inoltre, la pronuncia ribadisce il principio gerarchico delle fonti del diritto, secondo cui le circolari amministrative non possono introdurre requisiti o limitazioni non previsti dalla legge, pena la violazione dei diritti riconosciuti.

Rimangono confermate le spese legali a carico del ricorrente e l’obbligo di versamento di un ulteriore contributo unificato per l’impugnazione.

In sintesi, la Cassazione, con la sentenza n. 12971/2025, ha affermato il diritto alla parità di trattamento per tutte le donne residenti in Italia in relazione al premio alla nascita, contrastando pratiche discriminatorie basate su requisiti di nazionalità o permessi di soggiorno non previsti dalla legge.