Archivio mensile Giugno 20, 2025

DiAnnamaria Palumbo

Licenziamento per GMO e congedo straordinario: la Cassazione chiarisce la data di estinzione del rapporto di lavoro

Una recente pronuncia della Cassazione civile (sez. Lavoro, n. 15513 del 10/06/2025) offre chiarimenti fondamentali sulla data di efficacia del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (gmo) e le sue implicazioni, in particolare riguardo alla fruizione di congedi straordinari. La sentenza è di grande interesse per lavoratori e datori di lavoro, in quanto ridefinisce i confini temporali dell’estinzione del rapporto di lavoro in presenza della procedura di conciliazione obbligatoria.

Il caso: quando finisce davvero il rapporto di lavoro?

La vicenda trae origine dal caso del signor [omissis], assunto a tempo indeterminato da un’ industria cartaria. Il 22/01/2019, l’azienda comunicava l’intenzione di licenziarlo per giustificato motivo oggettivo, dovuto alla soppressione della struttura informatica di cui era responsabile, avviando la procedura di conciliazione prevista dalla legge.

Durante il periodo della procedura, il dipendente veniva collocato in ferie forzate fino all’08/02/2019, giorno in cui si teneva il tentativo di conciliazione con esito negativo. Lo stesso giorno, il lavoratore presentava all’Inps domanda di congedo biennale per assistere la madre non vedente. L’Inps rigettava la domanda, sostenendo che al momento della presentazione il rapporto di lavoro era già cessato.

Il datore di lavoro comunicava il licenziamento effettivo il 09/02/2019, con decorrenza dall’08/02/2019 e con esonero dal preavviso. Il signor ni.ma. Impugnava il licenziamento, chiedendo che la data di cessazione del rapporto fosse spostata all’11/02/2019 (data di ricezione della lettera) e che il licenziamento fosse dichiarato inefficace fino alla scadenza del congedo biennale, dato che la domanda era stata presentata quando il rapporto era ancora in essere.

La Corte d’appello aveva respinto le sue domande, sostenendo che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo produce effetti retroattivamente dal giorno della comunicazione di avvio del procedimento di conciliazione (nel caso specifico, il 22/01/2019), e che le uniche eccezioni erano tassative e non includevano il congedo biennale. La Corte d’appello aveva altresì ritenuto inderogabile la norma sull’efficacia retroattiva, a nulla valendo la scelta dell’azienda di collocare il dipendente in ferie fino all’08/02/2019.

La chiave di volta della Cassazione: rilevanza giuridica vs. effetto estintivo

La suprema Corte ha accolto il ricorso del lavoratore, cassando la sentenza della Corte d’appello. I giudici di legittimità hanno innanzitutto chiarito che la procedura di licenziamento per giustificato motivo oggettivo è una fattispecie complessa, strutturata in tre fasi:

  1. Comunicazione di intenzione di licenziare e avvio del tentativo di conciliazione.
  2. Svolgimento del procedimento conciliativo.
  3. Atto di licenziamento e sua comunicazione al lavoratore, solo dopo l’esito negativo della conciliazione.

Il punto essenziale della pronuncia risiede nella distinzione tra il momento in cui il licenziamento acquista rilevanza giuridica e quello in cui produce il suo effetto estintivo:

  • Rilevanza giuridica: il licenziamento per giustificato motivo oggettivo acquista rilevanza giuridica sin dal momento di avvio del procedimento conciliativo (quindi retroattivamente).
  • Effetto estintivo: l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, invece, non è sempre retroattivo. Dipende dalla scelta del datore di lavoro di concedere o meno il preavviso, o di non interrompere il rapporto di lavoro durante il periodo della procedura di conciliazione.

Il “preavviso lavorato” e la derogabilità della norma

La Cassazione ha sottolineato due aspetti fondamentali:

  • Salvezza del diritto al preavviso: la legge (art. 1, co. 41, l. N. 92/2012) fa salvo in ogni caso il diritto al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva. Ciò significa che, se il rapporto di lavoro è proseguito durante la procedura di conciliazione (anche con collocazione in ferie, come nel caso di specie), tale periodo è considerato per legge come “preavviso lavorato”. Questo esclude in radice la possibilità che l’effetto estintivo del recesso datoriale si collochi in un momento anteriore alla data di comunicazione del primo atto.
  • Derogabilità “in melius”: contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte d’appello, la norma sull’efficacia del licenziamento non è di natura imperativa e quindi è derogabile (seppur solo “in melius”, ossia a favore del lavoratore) per quanto riguarda il momento di produzione dell’effetto estintivo. La scelta del datore di lavoro di non interrompere il rapporto (ad esempio, collocando il dipendente in ferie durante la procedura di conciliazione) è un atto gestionale che ha una significativa valenza derogatoria, mantenendo la stabilità del rapporto fino a una data successiva.

Nel caso di specie, la Corte ha riconosciuto che l’averlo collocato in ferie fino all’08/02/2019 significava che tale giorno era ancora di durata del rapporto di lavoro, da considerare estinto non prima del 09/02/2019. La dichiarazione della società nella lettera di licenziamento del 09/02/2019, che l’effetto estintivo si sarebbe prodotto retroattivamente dall’08/02/2019, è stata ritenuta “tamquam non esset” (come se non esistesse).

L’importanza della domanda di congedo straordinario

Avendo stabilito che il rapporto di lavoro era ancora attivo l’08/02/2019, giorno della presentazione della domanda di congedo straordinario biennale, la Cassazione ha ordinato alla Corte d’appello di rivalutare la vicenda. La Corte ha ribadito il principio secondo cui il diritto alla conservazione del posto di lavoro per chi fruisce di congedo straordinario (ex art. 42, co. 5, d.lgs. N. 151/2001 e art. 4, co. 2, l. N. 53/2000) non rende nullo un licenziamento per altra causa legittima, ma al più lo rende inefficace fino al termine del congedo stesso. Questo diritto alla conservazione si traduce quindi in una sospensione temporanea degli effetti del licenziamento.

Conclusioni e implicazioni pratiche

La sentenza n. 15513/2025 della Cassazione è di fondamentale importanza perché:

  • Chiarisce la complessità della procedura di licenziamento per gmo, distinguendo chiaramente tra il momento in cui il recesso acquista rilevanza giuridica e quello in cui produce i suoi effetti estintivi.
  • Riconosce la valenza del “preavviso lavorato”, anche se non esplicitamente dichiarato come tale, affermando che il rapporto di lavoro resta giuridicamente rilevante durante la procedura di conciliazione se il dipendente continua a lavorare o è comunque “a disposizione” (es. in ferie).
  • Afferma la derogabilità “in melius” della norma sull’efficacia del licenziamento. Le scelte del datore di lavoro che favoriscono il mantenimento del rapporto (come la prosecuzione dell’attività o il collocamento in ferie) sono rilevanti e spostano in avanti la data di effettiva estinzione.
  • Rafforza la tutela del lavoratore che richiede congedi speciali, garantendo che la domanda sia valida se presentata quando il rapporto è ancora in essere (anche se in fase di preavviso lavorato) e che il licenziamento possa essere temporaneamente inefficace.

Questa pronuncia è un monito importante per i datori di lavoro a considerare attentamente la gestione del rapporto durante la procedura di licenziamento per gmo e per i lavoratori a conoscere i propri diritti in termini di tempistiche e tutele.


Per qualsiasi chiarimento o per un’analisi specifica del vostro caso, non esitate a contattare il nostro studio.

DiAnnamaria Palumbo

Reddito di Cittadinanza e requisiti di “Onorabilità”: la Cassazione fa chiarezza sul “patteggiamento”

Nel panorama delle prestazioni assistenziali, il Reddito di Cittadinanza (RdC) ha rappresentato per anni una misura di sostegno fondamentale. La sua concessione, tuttavia, è sempre stata vincolata a stringenti requisiti, non solo economici, ma anche di condotta. Una recente e significativa pronuncia della Corte di Cassazione, l’Ordinanza n. 15688, depositata il 12 giugno 2025, getta nuova luce su un aspetto cruciale: l’impatto delle sentenze di applicazione della pena su richiesta (il cosiddetto “patteggiamento”) sull’accesso a questo beneficio.

Il caso in esame

La vicenda al centro della sentenza riguarda il signor [Omissis], al quale l’INPS aveva negato il Reddito di Cittadinanza. Il motivo del rifiuto era la sussistenza, nei dieci anni precedenti la domanda, di una condanna definitiva per uno dei reati previsti dall’articolo 7, comma 3, del D.L. n. 4/2019 (convertito con L. n. 26/2019), nel testo modificato dalla L. n. 234/2021.

La Corte d’Appello di Roma, in primo grado, aveva accolto la domanda del lavoratore. I giudici di merito avevano interpretato la normativa ritenendo che una sentenza di applicazione della pena su richiesta (ex art. 444 c.p.p.) fosse una causa di revoca del beneficio eventualmente già concesso, ma non un ostacolo alla sua concessione iniziale, in quanto non la consideravano una vera e propria “sentenza di condanna” ai fini dell’accesso.

L’intervento della Cassazione: quando il “patteggiamento” conta subito

L’INPS ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che l’interpretazione della Corte d’Appello fosse errata e denunciando la violazione degli artt. 2, comma 1, e 7, comma 3, D.L. n. 4/2019.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’INPS, fornendo una chiarificazione decisiva. Ha premesso che l’art. 2, comma 1, D.L. n. 4/2019, prevedeva tra i requisiti per il RdC che il richiedente non avesse “condanne definitive, intervenute nei dieci anni precedenti la richiesta” per i delitti indicati nel successivo art. 7, comma 3. Quest’ultimo articolo, a sua volta, stabiliva che sia la “condanna in via definitiva” sia la “sentenza di applicazione della pena su richiesta” per i medesimi reati comportassero “di diritto l’immediata revoca del beneficio con efficacia retroattiva” e l’obbligo di restituzione “di quanto indebitamente percepito”.

Nonostante l’art. 7, comma 3, menzioni testualmente la rilevanza delle sentenze di applicazione della pena su richiesta solo per la “revoca”, la Cassazione ha sottolineato che la “revoca” in questione non è assimilabile a una revoca per sopravvenienza (che opera ex nunc). Al contrario, il fatto che operi “con efficacia retroattiva” e comporti l’obbligo di restituire “quanto indebitamente percepito” la qualifica come un vero e proprio “annullamento“, con efficacia ex tunc, del provvedimento originario di concessione. In pratica, la legge reputa il beneficio illegittimo fin dall’origine.

Il “requisito di onorabilità” e la funzione della norma

La Corte ha concluso che, alla luce di questa interpretazione, anche l’assenza di sentenze di applicazione della pena su richiesta per i reati previsti dall’art. 7, comma 3, D.L. n. 4/2019, costituisce un particolare “requisito di onorabilità”. Questa previsione mira a circoscrivere l’intervento della solidarietà collettiva in favore di coloro che sono “realmente meritevoli”.

Il legislatore ha esercitato una valutazione discrezionale, non ritenuta arbitraria dalla Cassazione, giustificando che il sostegno solidaristico non debba estendersi a coloro che, con la propria condotta, hanno mancato ai doveri di onestà, lealtà e probità nei confronti della stessa collettività che invocano in aiuto, specie considerando la limitatezza delle risorse disponibili.

Pertanto, è stato ritenuto erroneo da parte dei giudici di merito considerare che la sentenza di applicazione della pena su richiesta non potesse precludere in radice il conseguimento del Reddito di Cittadinanza.

Le implicazioni pratiche della sentenza

Questa pronuncia è di fondamentale importanza perché chiarisce definitivamente che, ai fini dell’accesso al Reddito di Cittadinanza, la sentenza di applicazione della pena su richiesta (patteggiamento) per i reati indicati nella legge ha lo stesso effetto preclusivo di una condanna definitiva. Non è necessario che il beneficio venga prima concesso per poi essere revocato: la condanna (o il patteggiamento) opera come impedimento all’ottenimento sin dalla domanda.

Per i cittadini e per gli enti preposti, questa sentenza fornisce una guida chiara e vincolante sull’interpretazione di uno dei requisiti più sensibili per l’accesso alle prestazioni assistenziali.

Il nostro studio legale resta a disposizione per fornire consulenza e assistenza su queste e altre questioni relative al diritto amministrativo e previdenziale.


Si precisa che il presente articolo ha carattere informativo e non costituisce consulenza legale. Per questioni specifiche, si invita a consultare un professionista qualificato.

DiAnnamaria Palumbo

Naspi e “lavoro effettivo”: la Cassazione fa chiarezza sulle giornate contribuite

Il mondo del lavoro è in continua evoluzione e con esso anche le interpretazioni delle norme che regolano le prestazioni di sostegno al reddito. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione, l’Ordinanza n. 15549, depositata il 12 giugno 2025, ha fornito importanti chiarimenti sul concetto di “lavoro effettivo” ai fini dell’accesso all’indennità di disoccupazione Naspi. Una sentenza che tutela i diritti dei lavoratori e chiarisce i confini tra prestazione lavorativa e periodi di sospensione.

Il caso in esame: un lavoratore e la sua Naspi contesa

La vicenda prende le mosse dal ricorso di un lavoratore al quale l’INPS aveva inizialmente negato la Naspi. Il motivo del rifiuto? La presunta mancanza del requisito delle trenta giornate di lavoro effettivo nei dodici mesi precedenti il licenziamento, come previsto dall’articolo 3, comma 1, lettera c) del D. Lgs. n. 22/2015.

La Corte d’Appello di Torino aveva dato ragione al lavoratore, interpretando la norma in modo estensivo: nel computo delle trenta giornate, dovevano essere considerate “tutte le giornate per le quali è stata versata la contribuzione”. Questo includeva anche i periodi non effettivamente lavorati ma che legittimano la sospensione del rapporto (come maternità, malattia, infortunio, ferie, CIGS, contratto di solidarietà), purché dessero diritto a una retribuzione su cui venivano versati i contributi. Nel caso specifico, il lavoratore aveva percepito compensi a titolo di ROL, ferie e festività durante un contratto di solidarietà aziendale, pur senza prestare attività concreta.

L’intervento della Cassazione: cosa si intende per “lavoro effettivo”?

L’INPS ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che il requisito di “lavoro effettivo” dovesse sussistere solo in presenza di una effettiva prestazione lavorativa. La Suprema Corte, tuttavia, ha rigettato il ricorso, confermando l’orientamento già espresso in precedenti pronunce e fornendo ulteriori, preziose precisazioni.

La Cassazione ha ribadito che la locuzione “lavoro effettivo” non coincide con il significato “naturalistico” di attività materialmente in essere. Dal punto di vista giuridico, la prestazione di lavoro è considerata “effettiva” anche durante le pause fisiologiche. Questo perché, in tali ipotesi, il contratto rimane inalterato nella sua funzionalità, e non si interrompono gli obblighi retributivi e contributivi.

La Corte ha sottolineato che un’interpretazione restrittiva della norma, che escludesse queste giornate, finirebbe per pregiudicare il lavoratore nei suoi diritti previdenziali anche quando esercita prerogative legittime o subisce comportamenti unilaterali del datore di lavoro, rischiando di violare l’articolo 38 della Costituzione.

I periodi di sospensione e la loro “neutralizzazione”

Un punto essenziale della pronuncia riguarda i periodi di sospensione del rapporto di lavoro dovuti a cause come maternità, infortunio, malattia, congedo parentale, o periodi coperti da cassa integrazione guadagni a zero ore. In questi casi, il lavoro non può essere considerato “effettivo” perché tali eventi impediscono totalmente lo svolgimento dell’attività e sospendono le obbligazioni principali delle parti.

Tuttavia, la Cassazione ha chiarito che tale sospensione, essendo un effetto della protezione costituzionale garantita dall’articolo 38 per situazioni non imputabili al lavoratore, non deve arrecare un danno al lavoratore stesso, impedendogli il godimento della prestazione di disoccupazione. La soluzione costituzionalmente corretta consiste nel “neutralizzare” tali periodi di sospensione, escludendoli dal computo dei dodici mesi di riferimento per la Naspi. Ciò significa che, in pratica, il periodo di osservazione per il requisito delle trenta giornate viene “allungato” di un lasso di tempo equivalente alla durata della sospensione tutelata.

I principi di diritto enunciati dalla Cassazione:

La sentenza si conclude con l’enunciazione di due principi fondamentali:

  • Il requisito delle “trenta giornate di lavoro effettivo” è integrato non solo dalle giornate di ferie e/o riposo retribuito, ma da ogni giornata che dia diritto al lavoratore alla retribuzione e alla relativa contribuzione.
  • Ai fini del computo dei “dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione”, sono esclusi (neutralizzati) i periodi di sospensione del rapporto di lavoro per cause tutelate dalla legge, che impediscono le reciproche prestazioni.

Implicazioni pratiche per lavoratori e datori di lavoro

Questa ordinanza della Cassazione rappresenta un punto fermo importante. Conferma che la normativa sulla Naspi deve essere interpretata in maniera tale da tutelare la posizione del lavoratore, evitando che eventi protetti dalla legge o fisiologici al rapporto di lavoro possano precludere l’accesso a prestazioni fondamentali.

Per i lavoratori, ciò significa maggiore chiarezza e sicurezza sul calcolo dei requisiti per la Naspi. Per i datori di lavoro e gli enti previdenziali, la pronuncia fornisce una guida precisa sull’interpretazione del concetto di “lavoro effettivo” e sulla gestione dei periodi di sospensione.

Il nostro studio legale resta a disposizione per approfondimenti su questa e altre tematiche relative al diritto del lavoro e della previdenza sociale.


Si precisa che il presente articolo ha carattere informativo e non costituisce consulenza legale. Per questioni specifiche, si invita a consultare un professionista qualificato.

DiAnnamaria Palumbo

Principi di tassatività e proporzionalità della sanzione disciplinare: le molestie verbali al vaglio della Cassazione

Una recente pronuncia, l’ordinanza n. 15549 dell’11 giugno 2025 della Cassazione Civile, Sezione Lavoro, ha offerto chiarimenti importanti in merito all’applicazione delle sanzioni disciplinari per condotte di molestie sessuali verbali sul luogo di lavoro. La sentenza ribadisce principi chiave relativi alla specificità della contestazione disciplinare e alla proporzionalità della sanzione, rafforzando la posizione del datore di lavoro nell’affrontare comportamenti gravi.

I fatti di causa

La vicenda trae origine dal ricorso di un dipendente, R.A., contro la decisione della Corte d’Appello di Bologna, che aveva confermato la legittimità della sanzione disciplinare di otto giorni di sospensione inflitta dalla sua azienda, (OMISSIS) spa. La sanzione era stata comminata a seguito di molestie sessuali verbali nei confronti di una collega di lavoro, una condotta che la Corte d’Appello aveva ritenuto fondata sulla base delle testimonianze raccolte. La corte aveva considerato adeguata la “massima sanzione conservativa”, ritenendo irrilevante la pregressa storia professionale del dipendente.

Le contestazioni del ricorrente in Cassazione

Il dipendente R.A. ha presentato ricorso in Cassazione, sollevando diverse censure, tra cui:

  • La violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 7 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori) e degli articoli 2104 e 2105 c.c., lamentando l’errata applicazione del principio di tassatività e determinatezza della contestazione disciplinare a causa dell’omessa indicazione dell’orario esatto degli episodi e del nome di tutti i colleghi menzionati.
  • La denuncia di incoerenza logica nell’applicazione del principio di “circolarità” tra onere di allegazione e onere della prova a carico del datore di lavoro.
  • La deduzione della violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. e 111 della Costituzione, per l’omessa indicazione del criterio logico assunto dalla Corte territoriale nella valutazione del quadro probatorio e delle testimonianze.
  • La censura di anomalia motivazionale e violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare.
  • La violazione e falsa applicazione dell’articolo 2106 c.c., per la presunta violazione del principio di gradualità e proporzionalità della sanzione.

Le ragioni della decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato complessivamente il ricorso, fornendo importanti chiarimenti su ciascun punto:

  1. Sulla determinatezza della contestazione: La Cassazione ha ritenuto infondato il primo motivo. Ha confermato che la Corte territoriale ha correttamente valutato che la contestazione era sufficientemente determinata sia in merito alla condotta contestata (molestie verbali a carattere sessuale nei confronti di altra dipendente) sia alle circostanze di tempo e luogo (23.6.2021). L’assenza dell’indicazione esatta dell’orario o del nome di tutti i colleghi non è stata considerata rilevante, poiché l’addebito riportava i fatti essenziali caratterizzanti la condotta sanzionata. Tale valutazione rientra nel giudizio di merito del giudice di fatto e non è censurabile in Cassazione se adeguatamente motivata e non contraddittoria.
  2. Sulla coerenza temporale e l’onere della prova: Relativamente al secondo motivo, la Corte ha osservato che la motivazione della Corte d’Appello deve essere “letta” nella sua interezza per coglierne l’iter logico . Sebbene la contestazione iniziale potesse essere percepita come generica sull’orario, il giudice d’appello ha correttamente indicato presunti orari a seguito delle testimonianze esaminate per valutare la coerenza dei testi con quanto contenuto nell’addebito . La Cassazione ha chiarito che non vi è stata alcuna “integrazione o interpolazione” della contestazione, ma solo un controllo sulla coerenza dei fatti risultanti dall’istruttoria. L’elemento dell’orario e la sua esattezza non sono stati considerati decisori rispetto all’addebito in sé; ciò che rileva è invece la coerenza tra quanto affermato nell’addebito e quanto risultante dall’istruttoria.
  3. Sulla valutazione della prova e la “storia lavorativa”: Il terzo motivo, che contestava l’errata valutazione della “storia lavorativa” del ricorrente e dell’ambiente ostile, è stato dichiarato inammissibile . La Corte ha ribadito che concentrare l’attenzione sullo specifico e unico fatto contestato (molestie verbali con implicazioni sessuali) per il quale era stata raggiunta piena prova, è del tutto ragionevole . La censura si è sostanziata in una riproposizione di elementi fattuali già discussi in sede di merito e non consentiti in sede di legittimità .
  4. Sull’immutabilità della contestazione: Analogamente, la censura relativa all’anomalia motivazionale e alla presunta violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare (per la collocazione oraria del fatto da parte della Corte d’Appello) è stata ritenuta inammissibilmente posta . Come già evidenziato, l’intervento della Corte d’Appello mirava a verificare la coerenza tra l’addebito e l’istruttoria, senza modificare la contestazione originaria.
  5. Sulla proporzionalità della sanzione: Infine, riguardo alla violazione del principio di gradualità e proporzionalità della sanzione (art. 2106 c.c.), la Cassazione ha confermato che si tratta di una valutazione di merito, di competenza della Corte d’Appello, e non sindacabile in sede di legittimità . La sentenza impugnata aveva chiarito che, pur non potendo dare rilievo ad altre due contestazioni più generiche, la rilevanza disciplinare del nucleo del fatto imputato (le molestie sessuali verbali), anche considerato nella sua singolarità, giustificava l’entità della sanzione inflitta . La Cassazione ha riaffermato che il giudizio di proporzionalità è sindacabile solo in caso di motivazione assente, illogica, perplessa o manifestamente incomprensibile .

Conclusioni e implicazioni pratiche

Questa ordinanza della Cassazione rafforza l’orientamento giurisprudenziale secondo cui le contestazioni disciplinari, pur dovendo essere specifiche per consentire al dipendente di difendersi, non richiedono un’eccessiva pedanteria nell’indicazione di dettagli minori (come l’orario esatto o tutti i nomi dei presenti) purché i fatti essenziali siano chiaramente individuati. Inoltre, la sentenza sottolinea l’ampia discrezionalità del giudice di merito nella valutazione della proporzionalità della sanzione, soprattutto in presenza di condotte gravi come le molestie sessuali, dove anche un singolo episodio può giustificare una sanzione significativa, inclusa la massima sanzione conservativa.

Per i datori di lavoro, è fondamentale assicurare che le contestazioni disciplinari siano chiare e sufficientemente dettagliate per consentire al dipendente una piena difesa, ma senza la necessità di includere ogni minimo dettaglio che non sia essenziale alla qualificazione del fatto. La capacità di dimostrare la coerenza tra la contestazione e i fatti accertati in fase istruttoria rimane un pilastro per la tenuta del provvedimento disciplinare in sede giudiziale.


Si precisa che il presente articolo ha carattere informativo e non costituisce consulenza legale. Per questioni specifiche, si invita a consultare un professionista.

DiAnnamaria Palumbo

La natura giuridica degli atti delle Casse privatizzate.

Annamaria Silvana Palumbo

Sommario

Introduzione. 1

1: La privatizzazione e la natura ibrida degli enti. 2

2: Il riconoscimento del potere normativo. 3

3: Le diverse interpretazioni sulla natura giuridica degli atti.. 4

3.1. L’orientamento pubblicistico: fonte secondaria e abrogazione. 4

3.2. L’orientamento privatistico: atto negoziale e deroga. 4

3.3. La prospettiva ibrida: regime giuridico particolare. 5

4: Limiti e condizioni dell’esercizio del potere normativo. 6

5: Gli orientamenti giurisprudenziali 7

6: Questioni aperte. 8

Conclusioni 8

Bibliografia. 9

Introduzione

Il sistema italiano di previdenza e assistenza obbligatoria per i liberi professionisti è stato oggetto di una radicale trasformazione a partire dal D. Lgs. n. 509 del 1994. Questo decreto ha avviato il processo di privatizzazione di numerosi enti storici, tra cui la Cassa forense (Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense). Nati in origine come enti pubblici, questi soggetti sono stati trasformati in soggetti giuridici di diritto privato, assumendo tipicamente la forma della fondazione o dell’associazione.

Nonostante la nuova veste giuridica privata, la natura pubblica dell’attività principale svolta da queste Casse è rimasta invariata: garantire le prestazioni previdenziali e assistenziali obbligatorie a specifiche categorie di lavoratori. Questa commistione tra anima privata del soggetto e finalità pubblica dell’attività istituzionale ha dato vita a soggetti “ibridi”, caratterizzati da una peculiare dualità.

Questa configurazione ibrida ha inevitabilmente generato incertezze e dibattiti nel panorama giuridico, in particolare riguardo alla natura degli strumenti normativi con cui questi enti gestiscono il complesso rapporto previdenziale con i propri iscritti. Il D. Lgs. 509/1994 ha genericamente attribuito loro il potere di adottare “provvedimenti (non meglio precisati)”. Tuttavia, l’evoluzione normativa successiva (come la L. 335/1995 e la L. 296/2006) e l’interpretazione giurisprudenziale hanno riconosciuto l’esistenza di un potere “latu sensu normativo”.

La questione centrale e tuttora controversa riguarda proprio la natura giuridica di questi atti. Sono equiparabili a fonti secondarie del diritto, capaci persino di abrogare leggi? Sono semplici atti negoziali di diritto privato, con mera efficacia contrattuale? O si collocano in un regime giuridico particolare, espressione dell’esercizio privato di funzioni pubbliche?

Questo elaborato si propone di analizzare tale dibattito, esplorando le diverse teorie, i principi che governano l’azione delle Casse privatizzate e gli orientamenti della giurisprudenza, con particolare attenzione alla Cassa forense.

1: La privatizzazione e la natura ibrida degli enti

Il processo di privatizzazione delle Casse di previdenza e assistenza per i liberi professionisti, avviato dal D. Lgs. 30 giugno 1994, n. 509, ha rappresentato un momento di svolta nel sistema previdenziale italiano. Enti che in precedenza erano qualificati come pubblici sono stati trasformati in soggetti con personalità giuridica di diritto privato. Questa trasformazione, tuttavia, non ha comportato una completa “privatizzazione” nel senso tradizionale del termine.

La dottrina e la giurisprudenza hanno spesso definito questa privatizzazione come “debole” o meramente “formale”. Nonostante l’acquisizione di una veste giuridica privata (fondazione o associazione), la natura pubblica dell’attività istituzionale è stata preservata. Le Casse continuano a svolgere un’attività doverosa di interesse generale: garantire la previdenza e l’assistenza obbligatoria a specifiche categorie professionali.

La continuità con il precedente ente pubblico si manifesta in diversi aspetti: la conservazione della titolarità dei rapporti attivi e passivi, del patrimonio, e soprattutto, delle finalità istitutive. Permane l’obbligo di iscrizione e contribuzione da parte dei professionisti beneficiari.

Un elemento fondamentale che evidenzia la natura non pienamente privatistica di questi enti è la sottoposizione a stringenti controlli pubblici. Essi sono soggetti alla vigilanza ministeriale e al controllo della Corte dei Conti sulla gestione, finalizzato ad assicurarne la legalità e l’efficacia. Inoltre, le Casse privatizzate sono state incluse nell’elenco Istat delle pubbliche amministrazioni per specifici fini, con conseguente applicazione di alcune normative tipiche del settore pubblico, come quelle in materia di spending review. Sebbene alcune di queste applicazioni (come il prelievo forzoso sui risparmi) siano state dichiarate incostituzionali, l’inclusione nell’elenco Istat sottolinea la percezione pubblica della loro natura.

Questa particolare configurazione rientra nel fenomeno più ampio dell’esercizio privato di funzioni o servizi pubblici. La legge impone direttamente al soggetto privato il dovere di curare un interesse generale. Ciò comporta l’applicazione di un regime giuridico misto, in cui regole pubblicistiche si innestano sulla base privatistica, derogando spesso al codice civile per quanto necessario a garantire il perseguimento del fine pubblico. L’ente non è libero di scegliere i propri fini, essendo la sua attività istituzionale doverosa e imposta dalla legge.

In sintesi, le Casse privatizzate sono soggetti ibridi, entità di diritto privato (nella forma) che esercitano un’attività di diritto pubblico (nella sostanza), soggette a un regime giuridico particolare che riflette questa dualità.

2: Il riconoscimento del potere normativo

Il D. Lgs. 509/1994, nel conferire autonomia gestionale, organizzativa e contabile, attribuì alle Casse il potere di adottare “provvedimenti” necessari a garantire l’equilibrio finanziario di lungo termine. Inizialmente, l’interpretazione di tale potere fu piuttosto restrittiva. Si riteneva che l’autonomia regolamentare fosse limitata agli spazi già previsti dalla legislazione previgente e che la funzione previdenziale rimanesse essenzialmente in capo allo Stato, con gli enti privatizzati meri “gestori”.

Tuttavia, l’evoluzione normativa e giurisprudenziale ha portato al riconoscimento, ormai sostanzialmente indiscusso, di un potere “latu sensu normativo” in capo alle Casse privatizzate. Un passaggio chiave in questo percorso è rappresentato dall’art. 3, comma 12, della Legge 8 agosto 1995, n. 335. Questa norma ha delineato, seppur in modo iniziale, gli ambiti di intervento discrezionale degli enti, pur fissando disposizioni imperative da rispettare. Sebbene una prima lettura potesse far pensare a un catalogo “a numero chiuso” dei provvedimenti adottabili, l’inciso finale della norma, che consente l'”introduzione di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico”, ha suggerito un catalogo aperto di opzioni, purché le modifiche incidessero sulla determinazione della pensione.

Successivi interventi, come l’art. 1, comma 763, della Legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Legge Finanziaria 2007), hanno ulteriormente rafforzato e definito l’autonomia delle Casse. La logica che sottende l’attribuzione di questo potere normativo è strettamente legata al principio dell’autofinanziamento. Poiché le Casse non ricevono finanziamenti diretti dallo Stato, la loro sostenibilità economico-finanziaria di lungo termine dipende dalla capacità di adeguare i flussi contributivi e le prestazioni erogate. La responsabilità di garantire le prestazioni obbligatorie imposta agli enti privatizzati rende necessari dei margini di azione definiti per intervenire sulla disciplina del rapporto previdenziale.

In questo contesto, si è sviluppata la teoria della “sostanziale delegificazione”. L’idea è che il legislatore, con il D. Lgs. 509/1994 e le norme successive, abbia in sostanza affidato all’autonomia regolamentare degli enti la disciplina dei rapporti previdenziali obbligatori, pur nel rispetto dei limiti di legge. Questo potere di autoregolamentazione è considerato uno strumento essenziale per consentire alle Casse di adattare la propria disciplina alle mutevoli condizioni demografiche ed economiche e garantire l’equilibrio finanziario.

3: Le diverse interpretazioni sulla natura giuridica degli atti

Nonostante il riconoscimento di un potere normativo, la sua esatta natura giuridica rimane uno dei punti più dibattuti. Le principali teorie emerse nel corso degli anni tentano di collocare questi atti nel sistema delle fonti del diritto, ma nessuna appare esente da critiche:

3.1. L’orientamento pubblicistico: fonte secondaria e abrogazione

Una prima interpretazione, sostenuta da parte della dottrina e da alcuni orientamenti giurisprudenziali passati, qualifica i provvedimenti delle Casse privatizzate come fonti secondarie del diritto. Secondo questa visione, in virtù della “sostanziale delegificazione” operata dal legislatore, questi atti sarebbero dotati di una forza normativa tale da poter abrogare leggi previgenti nella materia di competenza (ad esempio, per la Cassa forense, la L. 576/1980). Questa teoria distingue tra atti che riguardano l’attività istituzionale (considerati pubblicistici e regolamentari) e atti relativi all’organizzazione interna (considerati privatistici e negoziali).

Questa impostazione si scontra tuttavia con principi costituzionali fondamentali. La funzione previdenziale obbligatoria è riservata allo Stato (art. 38, commi 2 e 4 Cost.). Inoltre, le modifiche al Titolo V della Costituzione (L. Cost. 3/2001) hanno attribuito la legislazione esclusiva in materia di previdenza sociale allo Stato (art. 117, comma 2, lett. o). Riconoscere a enti privati un potere abrogativo nei confronti di leggi statali appare difficilmente compatibile con tale ripartizione di competenze e con la gerarchia delle fonti.

3.2. L’orientamento privatistico: atto negoziale e deroga

Un orientamento più recente e che ha trovato un consolidato sostegno nella Corte di Cassazione, tende a qualificare gli atti con cui le Casse esercitano la loro potestà regolamentare come atti di natura privatistica e negoziale. La logica di fondo è che un soggetto con natura giuridica privata, come una fondazione, debba necessariamente agire con strumenti propri di tale natura, anche quando persegue un interesse pubblico. Il carattere pubblicistico deriva dalla natura dell’interesse perseguito, non dagli strumenti utilizzati.

Secondo questa teoria, gli atti delle Casse non hanno il potere di abrogare le leggi, ma possono derogare ad esse. Tale deroga è legittima e possibile solo nella misura in cui sia indispensabile per garantire l’equilibrio finanziario di lungo periodo dell’ente, nel rispetto dei limiti di legge e dei principi cardine. Questo potere di deroga può spingersi fino a incidere, anche in senso peggiorativo, sulle posizioni giuridiche degli iscritti, se ciò è necessario per la sostenibilità del sistema.

Questa visione rifiuta l’idea che la natura pubblica dell’attività snaturi la forma privata degli atti. Anche gli atti che determinano i contributi o le prestazioni dovrebbero essere considerati, in quest’ottica, come espressione di autonomia negoziale. La giurisprudenza di Cassazione ha progressivamente consolidato questo orientamento.

3.3. La prospettiva ibrida: regime giuridico particolare

Molti interpreti, pur riconoscendo il prevalente orientamento privatistico della Cassazione, osservano che nessuna delle teorie estreme sembra cogliere appieno la complessità del fenomeno. La qualificazione degli enti come soggetti che realizzano un “esercizio privato di funzioni pubbliche” suggerisce l’applicazione di un regime giuridico misto o particolare.

Secondo questa prospettiva, gli atti che incidono sul rapporto previdenziale obbligatorio degli iscritti, pur essendo formalmente emanati da un soggetto privato, non possono essere tout court equiparati a meri atti negoziali privati. Essi possiedono la capacità di incidere unilateralmente sulle posizioni giuridiche degli iscritti e sono intrinsecamente legati alla finalità pubblica perseguita dall’ente.

Di conseguenza, tali atti si collocano in un regime giuridico speciale che deve armonizzare gli elementi pubblicistici (necessari per garantire la funzione pubblica e la doverosità dell’azione) con le peculiarità del soggetto privato. Il regime giuridico applicabile, in questa visione, non dipende tanto dalla natura soggettiva dell’ente, quanto dalla doverosità dell’esercizio dell’attività istituzionale e dal contenuto del potere esercitato per perseguire l’interesse generale.

Questo approccio riconosce la necessità di deviazioni dal modello civilistico della fondazione o associazione, ma limita tali deviazioni a quanto strettamente necessario per adattare la forma privata alla funzione pubblica da perseguire.

4: Limiti e condizioni dell’esercizio del potere normativo

Il potere normativo o regolamentare delle Casse privatizzate, sebbene riconosciuto come essenziale per la loro sostenibilità, non è illimitato. È vincolato da una serie di limiti e condizioni stabiliti dalla legge e interpretati dalla giurisprudenza.

La base giuridica fondamentale per l’esercizio di tale potere è rappresentata dall’art. 3, comma 12, della L. n. 335/1995, successivamente modificato e integrato. Questa norma, interpretata come norma imperativa inderogabile dall’autonomia delle Casse secondo alcuni orientamenti, definisce gli strumenti a disposizione degli enti e i limiti entro cui possono operare.

Le modifiche regolamentari devono essere finalizzate a garantire la stabilità economico-finanziaria di lungo periodo. Questo obiettivo giustifica interventi anche “in senso peggiorativo” per gli iscritti rispetto al regime previgente, purché necessari a tutelare i livelli di finanziamento e gli equilibri del sistema.

Tuttavia, l’esercizio di tale potere è condizionato dal rispetto di principi fondamentali che mirano a bilanciare le esigenze di sostenibilità con la tutela degli iscritti. Tra questi principi spiccano:

Principio del pro-rata: garantisce che gli iscritti che si sono visti succedere sistemi di calcolo della pensione diversi durante il periodo di iscrizione abbiano diritto a quote di pensione determinate secondo le norme vigenti nei rispettivi periodi di maturazione. Sebbene l’interpretazione giurisprudenziale di questo principio sia evoluta, esso rimane un limite all’introduzione di modifiche retroattive o eccessivamente penalizzanti per i diritti maturati.

Principio di gradualità: le modifiche che incidono negativamente sulle posizioni degli iscritti devono essere introdotte gradualmente, per consentire agli interessati di adattarsi e ridurre l’impatto.

Principio di equità intergenerazionale: le decisioni della Cassa devono bilanciare gli interessi delle diverse generazioni di iscritti (attuali pensionati, lavoratori prossimi alla pensione, giovani professionisti), evitando che il peso della sostenibilità gravi in modo eccessivo su una sola coorte.

Un ulteriore limite deriva dal ruolo dello Stato quale garante ultimo della funzione previdenziale (Art. 38 Cost.). Sebbene le Casse abbiano autonomia, lo Stato mantiene un potere di vigilanza e intervento. In caso di disavanzo persistente e incapacità dell’ente di porvi rimedio, la legge prevede persino l’avocazione della gestione allo Stato per la liquidazione. Ciò conferma che la funzione previdenziale, pur gestita da privati, resta un interesse pubblico la cui garanzia ultima spetta allo Stato.

Inoltre, l’applicazione di normative pubblicistiche (come quelle su trasparenza, controlli, o persino quelle derivanti dall’inclusione nell’elenco Istat), pur con le peculiarità legate alla natura privata del soggetto, funge da ulteriore vincolo all’autonomia.

5: Gli orientamenti giurisprudenziali

La giurisprudenza ha giocato un ruolo fondamentale nel definire la natura e i limiti del potere normativo delle Casse privatizzate, riflettendo e talvolta guidando l’evoluzione interpretativa.

La Corte di Cassazione, in particolare la Sezione Lavoro, ha progressivamente consolidato l’orientamento che qualifica gli atti regolamentari delle Casse come atti di natura privatistica e negoziale. Numerose pronunce (tra cui si possono citare, a titolo esemplificativo e non esaustivo, Cass. Civ., Sez. Lav., 25 agosto 2020, n. 177025671; Cass. Civ., Sez. Lav., 18 gennaio 2021, n. 694, ord.85; Cass. Civ., Sez. Lav., 12 giugno 2023, n. 16586, ord.1285) hanno ribadito che l’ente di diritto privato agisce con strumenti propri di tale diritto, pur perseguendo un interesse pubblico. Secondo questo filone, la deroga alla legge è possibile se necessaria per la sostenibilità finanziaria, purché nel rispetto dei limiti legali (L. 335/95, ecc.) e dei principi come il pro-rata, gradualità ed equità intergenerazionale.

La Corte Costituzionale si è pronunciata più volte sulla natura e il ruolo delle Casse privatizzate. Con la sentenza n. 248 del 1997, la Corte ha esaminato il D. Lgs. 509/1994, riconoscendo la permanenza della natura di servizio pubblico delle attività svolte nonostante la privatizzazione formale, la persistenza dei controlli ministeriali e della Corte dei Conti, e l’obbligatorietà dell’iscrizione e contribuzione. La Corte ha affermato che il finanziamento (anche indiretto tramite obbligo di iscrizione e contribuzione) configura un sistema di finanziamento pubblico. Successivamente, con la sentenza n. 7 del 2017, la Corte Costituzionale ha riordinato principi importanti, sottolineando che la tutela degli equilibri finanziari della Cassa è strumentale alla garanzia delle posizioni previdenziali degli iscritti (Art. 38, comma 2, Cost.).

Il Consiglio di Stato si è concentrato maggiormente sulla qualificazione soggettiva degli enti privatizzati, riconoscendo che, nonostante la personalità giuridica privata, essi possono presentare i requisiti di organismo di diritto pubblico in relazione a specifiche attività, come l’aggiudicazione di contratti (sottoponendoli, quindi, alle procedure ad evidenza pubblica). Le pronunce del Consiglio di Stato hanno confermato che la natura pubblicistica delle finalità giustifica l’applicazione di un regime misto, pur ribadendo che la natura privata del soggetto rimane un punto fermo.

Nel complesso, la giurisprudenza riflette la tensione tra la forma privata dell’ente e la natura pubblica della funzione. Mentre la Cassazione tende a enfatizzare gli strumenti privatistici con capacità di deroga, la giurisprudenza amministrativa e costituzionale evidenziano i profili pubblicistici e il regime misto, riconoscendo i vincoli e i controlli che distinguono questi enti da soggetti privati puri.

6: Questioni aperte

Il processo di privatizzazione delle Casse di previdenza e assistenza è ancora, per molti aspetti, un processo in divenire. Nonostante siano trascorsi molti anni dal D. Lgs. 509/1994, la piena armonizzazione tra l’anima pubblica e quella privata degli enti, e la conseguente certezza sulla natura e la forza degli atti normativi che essi adottano, rappresenta ancora una sfida aperta nel diritto previdenziale.

Permangono numerosi interrogativi e aree di incertezza. La definizione precisa dei confini del potere normativo delle Casse e la sua corretta collocazione nel sistema delle fonti del diritto sono questioni ancora dibattute. Trovare il giusto equilibrio tra l’autonomia gestionale e regolamentare necessaria agli enti per garantire la propria sostenibilità nel lungo termine e la tutela dell’interesse pubblico (la garanzia delle prestazioni previdenziali) e dei diritti degli iscritti rimane l’obiettivo principale della ricerca giuridica e dell’attività giurisprudenziale.

Si percepisce a volte una “egemonia” dello Stato che, attraverso interventi legislativi o interpretazioni restrittive, sembra voler limitare l’autonomia degli enti, nonostante l’autonomia fosse una delle ragioni fondamentali alla base della scelta di privatizzazione. Questa tensione tra controllo statale e autonomia degli enti ibridi continuerà probabilmente ad essere una caratteristica distintiva del sistema.

La complessità intrinseca derivante dalla commistione tra elementi pubblicistici e privatistici rende difficile l’applicazione di categorie giuridiche tradizionali. La prospettiva dell'”esercizio privato di funzioni pubbliche” e l’idea di un regime giuridico particolare e misto sembrano le più adatte a cogliere la realtà di questi enti e dei loro atti. Tuttavia, la precisa definizione di questo regime misto e le regole che lo governano sono ancora in corso di elaborazione da parte della dottrina e della giurisprudenza.

In conclusione, la natura giuridica degli atti normativi delle Casse privatizzate non è una questione di mera classificazione teorica, ma ha dirette ripercussioni sulla certezza del diritto per milioni di professionisti italiani, incidendo sulla determinazione dei loro contributi e delle loro future prestazioni previdenziali.

Conclusioni

La privatizzazione delle Casse di previdenza per i liberi professionisti ha dato vita a soggetti giuridici complessi e ibridi, caratterizzati da una natura formale privata e una finalità sostanziale pubblica. Il loro potere di autoregolamentazione è uno strumento essenziale per garantire la sostenibilità finanziaria nel lungo periodo, in linea con il principio dell’autofinanziamento.

La natura giuridica degli atti con cui esercitano tale potere rimane oggetto di dibattito. Se la teoria della fonte secondaria (con potere abrogativo) appare poco compatibile con i principi costituzionali sulla riserva allo Stato della funzione e della legislazione previdenziale, l’orientamento prevalente della Corte di Cassazione li qualifica come atti di natura privatistica/negoziale, capaci di derogare alla legge se necessario per la stabilità, nel rispetto dei limiti e principi come il pro-rata, gradualità ed equità intergenerazionale.

Una visione più sfumata e, forse, più aderente alla realtà complessa di questi enti, suggerisce che gli atti che incidono sul rapporto previdenziale obbligatorio si collochino in un regime giuridico particolare e misto, espressione dell’esercizio privato di funzioni pubbliche.


Bibliografia

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Bagli I., Pizzutelli M., “L’autonomia normativa di Cassa Forense: limiti, presupposti e controlli”, Cassa Forense Rivista Previdenza Forense, n. 2, 2021, pp. 105-114, 154-161, 169-177.

Bresciani I., “I poteri normativi della Cassa forense dopo la privatizzazione. L’inquadramento dogmatico e gli orientamenti della giurisprudenza”, Adapt University Press, Working Paper, n. 5, 2021.

Bresciani I., “La Cassa forense dopo la privatizzazione”, Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro, Numero straordinario, 2020, pp. 1383-1400.

Saporito A., “Le Casse previdenziali tra vecchi problemi e nuove discipline” – Pa persona e amministrazione, Ricerche Giuridiche sull’Amministrazione e l’Economia, 723 – 755.

DiAnnamaria Palumbo

La Cassazione ribadisce la forza del giudicato nei rapporti di lavoro universitari: il caso dei lettori di madrelingua

Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 5 giugno 2025, n. 15052

La Corte di Cassazione ha recentemente pronunciato una sentenza che chiarisce i confini dell’autorità del giudicato nei rapporti di lavoro di durata, con particolare riferimento alla vicenda dei lettori di madrelingua straniera presso le università italiane.

Il caso in esame

La controversia ha origine dal complesso rapporto lavorativo tra una lettrice di madrelingua straniera e l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. La vicenda si snoda attraverso diversi gradi di giudizio e tocca questioni fondamentali relative alla determinazione del trattamento retributivo e all’applicazione dell’art. 26, comma 3, della legge n. 240/2010.

La lavoratrice, assunta inizialmente come lettrice di madrelingua straniera con contratti a termine reiterati, aveva ottenuto in un primo giudizio il riconoscimento della natura a tempo indeterminato del rapporto e la liquidazione delle differenze retributive fino al 31 ottobre 1994. Successivamente, un secondo giudizio aveva definito le differenze retributive per il periodo dal 1994 al 2008, con sentenza passata in giudicato che aveva escluso espressamente l’applicazione dell’art. 26, comma 3, della legge n. 240/2010.

La questione giuridica

Il nodo centrale della controversia riguardava la possibilità di applicare criteri di calcolo diversi da quelli già definiti dal giudicato per il periodo successivo al 2008. La Corte d’Appello di Bari aveva accolto parzialmente l’appello della lavoratrice, ritenendo che la norma di interpretazione autentica dell’art. 26, comma 3, potesse trovare applicazione per il periodo post-2008, non coperto dal precedente giudicato.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha censurato l’orientamento della Corte d’Appello, riaffermando un principio fondamentale: il giudicato esterno, in quanto dotato di forza imperativa e indisponibile per le parti, deve essere interpretato alla stregua delle norme giuridiche.

La Cassazione ha chiarito che la sentenza della Corte d’Appello di Lecce del 2013, passata in giudicato, aveva espressamente escluso l’applicazione dell’art. 26, comma 3, della legge n. 240/2010 non solo per il periodo specificamente oggetto di quel giudizio, ma anche per il periodo successivo, “in virtù del consolidamento della situazione antecedente”.

Il principio di diritto affermato

La sentenza ribadisce che, nei rapporti giuridici di durata e nelle obbligazioni periodiche, l’autorità del giudicato impedisce il riesame di questioni già definitivamente risolte. Il giudicato esplica la propria efficacia anche nel tempo successivo alla sua emanazione, con l’unico limite rappresentato da una sopravvenienza di fatto o di diritto che muti materialmente il contenuto del rapporto.

Nel caso specifico, poiché alla data di definizione del giudizio precedente la norma di interpretazione autentica era già in vigore e la Corte di merito ne aveva inequivocabilmente escluso l’applicazione, non era possibile rimetterne in discussione l’applicabilità in un giudizio successivo relativo allo stesso rapporto.

Implicazioni pratiche

Questa pronuncia assume particolare rilevanza per diversi aspetti:

  1. Stabilità dei rapporti giuridici: conferma che il giudicato costituisce un elemento di certezza che non può essere aggirato attraverso la frammentazione temporale delle controversie
  2. Interpretazione del giudicato: stabilisce che l’interpretazione delle decisioni passate in giudicato segue le regole dell’interpretazione normativa, non negoziale
  3. Rapporti di lavoro universitari: chiarisce i limiti di applicazione retroattiva delle norme di interpretazione autentica quando intervengano su rapporti già definiti da giudicato

Conclusioni

La decisione della Cassazione rappresenta un importante chiarimento sui rapporti tra giudicato e normativa sopravvenuta nei rapporti di lavoro di durata. Il principio affermato tutela la certezza dei rapporti giuridici e impedisce che la frammentazione temporale delle controversie possa essere utilizzata per aggirare gli effetti di decisioni già definitive.

La vicenda evidenzia l’importanza di una valutazione complessiva degli effetti del giudicato nei rapporti continuativi e conferma che l’autorità della cosa giudicata non può essere compressa da interpretazioni che ne limitino artificiosamente la portata temporale.


Per approfondimenti su questa sentenza o su questioni simili relative ai rapporti di lavoro universitari, non esitate a contattare il nostro studio.

DiAnnamaria Palumbo

Premi di produzione e prescrizione contributiva: il principio di competenza prevale sempre

La Cassazione ribadisce che i contributi sui premi di produzione decorrono dalla data di scadenza contrattuale, non dall’effettivo pagamento

Con l’ordinanza n. 15054 del 5 giugno 2025, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha chiarito definitivamente una questione importante per aziende e lavoratori: quando inizia a decorrere il termine di prescrizione per i contributi previdenziali sui premi di produzione pagati in ritardo.

Il caso: un premio del 2004 pagato nel 2013

La vicenda ha avuto origine da un contenzioso tra un dipendente e la società [omissis] per il risarcimento dei danni derivanti da omessa contribuzione su un premio di produzione. Il lavoratore aveva ottenuto con sentenza del 2012 il riconoscimento del diritto al premio di produzione relativo all’anno 2004, che la società aveva poi corrisposto tra gennaio e marzo 2013.

La questione centrale riguardava il momento da cui far decorrere la prescrizione dei contributi previdenziali: la società aveva versato i contributi all’Inps nel maggio 2015, ma l’istituto li aveva rifiutati ritenendoli prescritti. La Corte d’appello di Torino aveva dato ragione alla società, applicando erroneamente il criterio di cassa anziché quello di competenza.

Il principio affermato dalla suprema Corte

Il criterio di competenza non ammette deroghe

La Cassazione ha ribadito con fermezza che il sistema di prelievo contributivo si basa sulla nozione di retribuzione “dovuta” e non su quella effettivamente corrisposta. Questo principio, definito “criterio di competenza”, trova la sua base normativa nelle disposizioni sulla retribuzione contributiva che si sono succedute nel tempo.

Come costantemente affermato dalla Corte, la base imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali resta insensibile agli eventuali inadempimenti del datore di lavoro. I contributi devono essere commisurati non alla retribuzione materialmente erogata, ma a quella che il lavoratore ha diritto di ricevere secondo la normativa di riferimento.

L’errata interpretazione dell’art. 12 della legge n. 153/1969

La Corte d’appello aveva erroneamente interpretato l’art. 12, comma 9, della legge n. 153/1969, che prevede per i premi di produzione l’assoggettamento a contribuzione “nel mese di corresponsione”. I giudici territoriali avevano inteso questa disposizione come riferita al momento dell’effettivo pagamento (criterio di cassa).

La Cassazione ha chiarito che il “mese di corresponsione” è quello stabilito dalla legge o dal contratto, non quello dell’effettivo pagamento. Il criterio resta quindi sempre di competenza, non di cassa. Come precisato dalla giurisprudenza consolidata, questa disposizione non deroga ai principi generali del sistema contributivo.

Le conseguenze pratiche della pronuncia

Per le aziende

La sentenza ha implicazioni significative per la gestione dei premi di produzione:

  • Obbligo contributivo immediato: i contributi sono dovuti dalla data di scadenza contrattuale del premio, indipendentemente dal pagamento effettivo
  • Rischio prescrizione: il ritardo nel pagamento del premio non giustifica il ritardo nel versamento dei contributi
  • Responsabilità risarcitoria: l’omessa contribuzione può comportare danni al lavoratore, anche di natura pensionistica

Per i lavoratori

I lavoratori possono trarre diversi vantaggi da questo orientamento:

  • Tutela della posizione contributiva: i contributi maturano dalla data di competenza, non dal pagamento
  • Diritto al risarcimento: in caso di omessa contribuzione per prescrizione, sussiste il diritto al risarcimento del danno pensionistico
  • Maggiore certezza: la posizione contributiva non dipende dai ritardi aziendali nei pagamenti

Le implicazioni sistematiche

Coerenza del sistema contributivo

La pronuncia conferma la coerenza del sistema previdenziale italiano, che non può essere influenzato dai comportamenti inadempimenti dei datori di lavoro. Il principio di competenza garantisce:

  • Uniformità nell’applicazione delle regole contributive
  • Tutela dei diritti previdenziali dei lavoratori
  • Certezza nei rapporti con gli enti previdenziali

Responsabilità datoriale

Le aziende devono prestare particolare attenzione alla gestione dei premi di produzione, considerando che:

  • L’obbligo contributivo sorge con la maturazione del diritto
  • Il ritardo nel riconoscimento del premio non giustifica il ritardo contributivo
  • La prescrizione dei contributi può comportare l’impossibilità di sanare la posizione del lavoratore

Conclusioni

La sentenza n. 15054/2025 rappresenta un importante richiamo alla corretta applicazione dei principi del sistema contributivo. La Cassazione ha voluto ribadire che il criterio di competenza non ammette eccezioni, nemmeno per particolari tipologie retributive come i premi di produzione.

Per le aziende, la pronuncia impone una gestione più attenta degli aspetti contributivi legati ai premi variabili, evitando di subordinare gli obblighi previdenziali ai tempi effettivi di pagamento. Per i lavoratori, rappresenta un’ulteriore garanzia della tutela dei propri diritti previdenziali.

Il caso sarà ora riesaminato dalla Corte d’appello di Torino, che dovrà verificare se, applicando correttamente il criterio di competenza, i contributi versati nel 2015 su un premio dovuto nel 2005 fossero effettivamente prescritti e, di conseguenza, se sussista il diritto del lavoratore al risarcimento del danno pensionistico.


La sentenza è stata depositata il 5 giugno 2025 e conferma un orientamento consolidato della Cassazione in materia di contributi previdenziali. Per approfondimenti sulla gestione degli aspetti contributivi aziendali, il nostro studio rimane a disposizione per consulenze specialistiche.

DiAnnamaria Palumbo

Indennità di trasferta e contributi previdenziali: i nuovi orientamenti della Cassazione

La Cassazione chiarisce quando le indennità di trasferta sono soggette a contribuzione previdenziale e ribadisce i criteri per valutare gli assetti proprietari coincidenti negli sgravi per nuove assunzioni

Con l’ordinanza n. 15056 del 5 giugno 2025, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha affrontato due questioni di particolare rilevanza per le aziende: il regime contributivo delle indennità di trasferta e i criteri per l’accesso agli sgravi contributivi previsti dalla legge n. 223/1991.

Il caso: indennità di trasferta e valutazione degli assetti proprietari

La vicenda ha avuto origine da un contenzioso tra una società e l’Inps relativo a due distinte pretese contributive. Da un lato, l’istituto richiedeva il versamento di contributi sulle indennità di trasferta corrisposte a un dipendente; dall’altro, contestava il diritto della società agli sgravi contributivi per nuove assunzioni, sostenendo la sussistenza di assetti proprietari coincidenti con le aziende che avevano precedentemente licenziato i lavoratori.

La Corte d’appello di Firenze aveva accolto parzialmente le ragioni della società, escludendo l’obbligo contributivo sulle indennità di trasferta ma confermando la pretesa dell’Inps quanto agli sgravi.

I principi affermati dalla suprema Corte

Assetti proprietari coincidenti: una nozione più ampia del controllo societario

La Cassazione ha confermato un orientamento consolidato secondo cui la valutazione degli “assetti proprietari coincidenti” ai fini degli sgravi contributivi non si limita ai rapporti di controllo tipizzati dall’art. 2359 del codice civile.

Il giudice deve condurre un accertamento di merito che consideri tutti gli elementi sostanziali, inclusi i rapporti familiari e di amicizia tra i soci, quando questi siano finalizzati a operazioni coordinate di ristrutturazione aziendale. L’obiettivo è verificare se l’operazione abbia avuto la finalità di eludere la ratio della disciplina incentivante attraverso licenziamenti e assunzioni privi di reale incidenza positiva sul piano occupazionale.

Nel caso specifico, la Corte territoriale aveva correttamente valorizzato diversi elementi: i rapporti di stretta familiarità tra i soci, la presenza di una socia di maggioranza appena diciottenne, l’identità di sede e attività delle società coinvolte. Da questi indizi, unitariamente considerati, era emerso il quadro di un’operazione preordinata all’elusione normativa.

Indennità di trasferta: non sempre esenti da contribuzione

Il punto più innovativo della pronuncia riguarda il regime contributivo delle indennità di trasferta. La Cassazione ha chiarito che queste somme non sono automaticamente esenti da contribuzione, dovendo il giudice verificare caso per caso il rispetto dei limiti previsti dall’art. 51, comma 5, del d.p.r. N. 917/1986.

I criteri da applicare sono i seguenti:

  • Trasferte nell’ambito comunale: le indennità concorrono sempre a formare reddito (e quindi base contributiva), salvo le spese di trasporto documentate
  • Trasferte fuori comune: concorrono a formare reddito solo per la parte eccedente 90.000 lire giornaliere (150.000 per l’estero)
  • Rimborsi analitici: concorrono a formare reddito oltre le 30.000 lire giornaliere (50.000 per l’estero)

Le implicazioni pratiche per le aziende

La pronuncia ha importanti ricadute operative per la gestione aziendale:

Per le indennità di trasferta, le aziende devono:

  • Documentare accuratamente natura e modalità delle trasferte
  • Verificare il rispetto dei limiti normativi per l’esenzione contributiva
  • Considerare che l’onere della prova dell’esenzione ricade sul datore di lavoro

Per gli sgravi contributivi, occorre prestare attenzione a:

  • Rapporti sostanziali tra le società coinvolte nelle operazioni
  • Finalità reali delle ristrutturazioni aziendali
  • Documentazione dell’effettiva novità dell’operazione sul piano occupazionale

Conclusioni

La sentenza conferma l’approccio sostanzialista della Cassazione nella valutazione delle fattispecie giuslavoristiche. Sia per gli assetti proprietari che per le indennità di trasferta, il giudice deve andare oltre il dato formale per accertare la reale natura dell’operazione o della prestazione.

Per le aziende, questo orientamento impone una maggiore attenzione nella strutturazione delle operazioni e nella documentazione delle voci retributive, considerando che la verifica dell’amministrazione si concentra sempre più sulla sostanza dei rapporti piuttosto che sulla loro forma apparente.


La sentenza è stata depositata il 5 giugno 2025 e sarà disponibile nelle principali banche dati giuridiche. Per approfondimenti sulla materia contributiva e giuslavoristica, il nostro studio rimane a disposizione per consulenze specialistiche.

DiAnnamaria Palumbo

Risoluzione consensuale del rapporto di lavoro: quando le formalità di convalida sono determinanti (Cass. Civ. Sez. Lav. 4 giugno 2025, n. 15006)

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 15006 del 4 giugno 2025, ha fornito importanti chiarimenti sulla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, affrontando la questione dell’efficacia degli accordi estintivi conclusi per comportamenti concludenti e l’applicazione delle formalità previste dalla legge n. 92/2012.

Il caso concreto

La vicenda ha avuto origine dalla richiesta di una giornalista di accertare la sussistenza del rapporto di lavoro con la propria società editrice anche dopo il 6 luglio 2015, data in cui aveva iniziato a lavorare per un’altra azienda del settore. Sia il Tribunale di Verona che la Corte di Appello di Venezia avevano respinto la domanda, ritenendo che il primo rapporto fosse stato risolto consensualmente attraverso comportamenti concludenti delle parti.

La lavoratrice ha impugnato la decisione sostenendo che la risoluzione consensuale, al pari delle dimissioni, richiede il rispetto delle formalità di convalida introdotte dall’art. 4, commi 17-22, della legge n. 92/2012 per produrre effetti giuridici.

La posizione della Suprema Corte

La Cassazione ha accolto il primo motivo di ricorso, chiarendo alcuni principi fondamentali:

  • Risoluzione per facta concludentia: La risoluzione consensuale può avvenire anche attraverso comportamenti concludenti delle parti, senza necessità di forma scritta, salvo specifiche disposizioni legislative contrarie.
  • Condizione sospensiva di efficacia: l’art. 4, commi 17-22, della legge n. 92/2012 ha introdotto una condizione sospensiva per l’efficacia di dimissioni e risoluzioni consensuali. In assenza della convalida formale, l’accordo estintivo rimane provvisoriamente inefficace e il rapporto resta in stato di quiescenza.
  • Valutazione del giudice di merito: Il giudice di merito dispone di ampi poteri discrezionali nella valutazione delle prove presuntive e nell’accertamento della volontà risolutoria delle parti. Tale valutazione può essere sindacata in Cassazione solo per manifesta illogicità o contraddittorietà.

La mancata osservanza delle formalità di convalida comporta che il rapporto di lavoro si consideri ancora in essere fino alla regolare conferma dell’accordo estintivo. Questo aspetto ha particolare rilevanza per i rapporti di lavoro sorti prima dell’entrata in vigore del d.lgs. N. 151/2015, che ha abrogato le disposizioni della legge n. 92/2012.

La pronuncia evidenzia come la libertà di forma negli accordi estintivi del rapporto di lavoro debba essere bilanciata con le specifiche tutele procedurali introdotte dal legislatore. Le parti e i loro consulenti devono prestare particolare attenzione al rispetto delle formalità previste, considerando che la loro omissione può comportare l’inefficacia dell’accordo e la permanenza del rapporto di lavoro.

La Corte ha rinviato gli atti alla Corte di Appello di Venezia per un nuovo esame che tenga conto sia della risoluzione consensuale provvisoriamente inefficace sia del comportamento complessivo delle parti, inclusa la messa in mora comunicata dalla lavoratrice.

Riferimenti normativi

  • Art. 4, commi 17-22, legge 28 giugno 2012, n. 92
  • Art. 1372 c.c. (mutuo consenso per scioglimento contratto)
  • Art. 2727 e 2729 c.c. (prova presuntiva)
  • Art. 1325 c.c. (libertà di forma degli atti negoziali)
DiAnnamaria Palumbo

Trattamento dati dipendenti: la decisione del Garante contro regione Lombardia e le indicazioni per i datori di lavoro (Provvedimento Garante del 29 aprile 2025)


Una recente decisione del Garante per la Protezione dei Dati Personali nei confronti della Regione Lombardia, emessa a seguito di accertamenti ispettivi volti a verificare l’osservanza delle norme in ambito lavorativo, compreso lo svolgimento del lavoro agile, pone l’accento sulle delicate questioni relative al trattamento dei dati personali dei dipendenti. Il provvedimento (Registro dei provvedimenti n. 243 del 29 aprile 2025) evidenzia diverse violazioni e impone misure correttive, offrendo importanti spunti di riflessione per tutti i datori di lavoro, pubblici e privati.

L’istruttoria del Garante ha riguardato, in particolare, le modalità di raccolta e conservazione dei metadati relativi all’utilizzo della posta elettronica e dei log di navigazione in Internet da parte del personale, nonché la gestione dei dati nel sistema di assistenza tecnica.

Metadati di posta elettronica: oltre la sfera tecnica

Uno dei punti critici emersi riguarda la gestione dei metadati di posta elettronica. La Regione Lombardia conservava tali dati, inclusi mittente, destinatario, data, ora, dimensione e talvolta l’oggetto, per un periodo di 90 giorni, dichiarando finalità di sicurezza informatica e assistenza tecnica. Tuttavia, il Garante ha ritenuto che una conservazione così estesa, in assenza di un preventivo accordo sindacale (o autorizzazione dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro), costituisse un trattamento non conforme alla disciplina nazionale sui controlli a distanza dei lavoratori.

Secondo il Garante, i metadati di posta elettronica godono di garanzie di segretezza, anche a livello costituzionale, e persino i dati “esteriori” (come tempi e destinatari) possono rivelare aspetti della sfera personale se aggregati ed elaborati. L’eccezione prevista dall’art. 4, comma 2, della Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) per gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa è di stretta interpretazione. La raccolta e conservazione generalizzata e preventiva dei metadati per un arco temporale esteso non rientra, di regola, in questa eccezione, ma ricade nell’ambito di applicazione del comma 1, che richiede l’accordo sindacale (o l’autorizzazione).

Il Garante ha ribadito il suo orientamento consolidato, precisando che l’attività di raccolta e conservazione dei soli metadati strettamente necessari al funzionamento e alla sicurezza essenziale del sistema può rientrare nel comma 2 solo se limitata a pochi giorni, di norma non superiore ai 21 giorni, salvo comprovare specifiche necessità di estensione. La conservazione per 90 giorni, come nel caso della Regione, è stata considerata eccedente le finalità di mero funzionamento e rientrante invece nella finalità di tutela del patrimonio informativo e della sicurezza informatica, ricondotta al comma 1 dell’art. 4.

Nonostante la Regione abbia poi stipulato accordi sindacali durante l’istruttoria e avesse avviato una riflessione interna anche prima della pubblicazione del Documento di indirizzo sui metadati, il trattamento pregresso è stato ritenuto illecito per assenza delle garanzie procedurali previste.

Log di navigazione Internet: attenzione alla pertinenza e alla conservazione

Anche per i log di navigazione in Internet è stata riscontrata una situazione analoga. La Regione raccoglieva e conservava tutti i log (inclusi i tentativi falliti di accesso a siti in black list) per 365 giorni senza un accordo sindacale.

Il Garante ha stabilito che la raccolta e conservazione sistematica dei log di navigazione, consentendo di risalire all’attività dei singoli dipendenti, richiede il rispetto dell’art. 4, comma 1, Legge 300/1970. Tali dati, infatti, possono riguardare aspetti della vita privata, e i dipendenti, specie in lavoro agile, hanno una legittima aspettativa di riservatezza.

La conservazione dei log di navigazione per 365 giorni è stata giudicata eccessiva rispetto alla finalità di sicurezza della rete, anche considerando le misure organizzative messe in atto dalla Regione per separare i dati tra diversi fornitori (indirizzo IP, MAC address, nome utente), poiché tale separazione non impediva al titolare di risalire all’identità del dipendente con la cooperazione dei fornitori.

Il trattamento è stato pertanto ritenuto non conforme ai principi di liceità, correttezza, trasparenza, minimizzazione dei dati e limitazione della conservazione. Il Garante ha anche sottolineato il divieto di raccogliere dati non attinenti all’attività lavorativa, come previsto dall’art. 113 del Codice Privacy in relazione all’art. 8 Legge 300/1970.

Dati di assistenza tecnica: i tempi di conservazione contano

Un altro punto critico ha riguardato la conservazione dei dati relativi alle richieste di assistenza tecnica nel sistema dismesso “OTRS”. Alcuni dati risalivano al 2016 ed erano ancora conservati all’epoca dell’istruttoria. Sebbene la Regione abbia poi provveduto alla cancellazione, la conservazione prolungata è stata ritenuta in contrasto con i principi di limitazione della conservazione e di protezione dei dati fin dalla progettazione e per impostazione predefinita (privacy by design/default).

Inoltre, l’accordo con i nuovi fornitori del servizio di assistenza (nominati responsabili del trattamento ai sensi dell’art. 28 GDPR) non copriva inizialmente il trattamento dei dati presenti nel vecchio sistema OTRS durante la fase di dismissione. Questo ha comportato una violazione degli obblighi relativi alla nomina del responsabile del trattamento.

Mancanza della valutazione d’impatto sulla protezione dei dati (DPIA)

Il Garante ha rilevato che il trattamento dei metadati di posta elettronica e dei log di navigazione Internet era stato avviato e condotto in assenza di una preliminare DPIA. La DPIA è obbligatoria quando un trattamento può presentare un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone fisiche. Il monitoraggio sistematico dei dipendenti tramite sistemi tecnologici rientra tipicamente in queste fattispecie, data la loro particolare vulnerabilità nel contesto lavorativo. Nonostante la Regione abbia svolto le DPIA tardivamente durante l’istruttoria, il trattamento pregresso è stato ritenuto illecito per la mancata valutazione preventiva.

È importante notare che la Regione ha chiarito che nessuno dei due procedimenti disciplinari avviati nei confronti di dipendenti negli ultimi cinque anni era basato sull’utilizzo dei log di posta elettronica o navigazione internet. Il Garante ha preso atto di ciò, escludendo una violazione specifica relativa all’uso di dati trattati illecitamente per fini disciplinari.

Sanzioni e misure correttive imposte

Per le violazioni riscontrate, il Garante ha imposto alla Regione Lombardia una sanzione amministrativa pecuniaria complessiva di 50.000 Euro. La sanzione è stata calcolata considerando separatamente le condotte relative ai metadati email (20.000 €), ai log di navigazione (25.000 €) e ai dati OTRS (5.000 €), tenendo conto sia degli elementi aggravanti (la delicatezza dei dati, l’assenza di garanzie per lungo tempo) che attenuanti (la cooperazione della Regione, l’assenza di precedenti specifici, le iniziative di adeguamento intraprese durante l’istruttoria).

In aggiunta alla sanzione, il Garante ha ingiunto alla Regione l’adozione, entro 90 giorni, di una serie di misure correttive supplementari, in particolare per i log di navigazione, per garantire una maggiore conformità del trattamento. Queste includono:

  • L’anonimizzazione dei log relativi ai tentativi falliti di accesso ai siti in black list.
  • La riduzione del termine di conservazione dei log di navigazione da 365 a 90 giorni, con cancellazione dei dati personali oltre tale termine e possibilità di conservazione anonimizzata per periodi ulteriori.
  • Lo svolgimento delle verifiche legate ad anomalie di sicurezza principalmente a livello organizzativo, limitando l’identificazione individuale a casi estremi.
  • La cifratura del dato relativo ai nomi dei dipendenti assegnatari delle macchine.
  • L’autorizzazione al trattamento di questi dati solo a un numero strettamente limitato di persone appositamente selezionate e istruite.
  • L’aggiornamento degli accordi sindacali per riflettere le nuove misure.

La Regione dovrà comunicare al Garante le iniziative intraprese entro 30 giorni dalla notifica del provvedimento.

Conclusioni e raccomandazioni per i datori di lavoro

La decisione del Garante conferma la grande attenzione rivolta alla tutela della privacy dei lavoratori nell’era digitale, sottolineando l’equilibrio delicato tra le legittime esigenze organizzative e di sicurezza del datore di lavoro e i diritti fondamentali dei dipendenti.

Per evitare sanzioni e garantire la conformità normativa, i datori di lavoro devono:

  • Valutare attentamente la necessità e la proporzionalità del trattamento dei dati personali dei dipendenti, inclusi metadati di posta elettronica e log di navigazione.
  • Qualora i trattamenti configurino un controllo a distanza che vada oltre il mero utilizzo degli strumenti di lavoro per le mansioni, è indispensabile rispettare le garanzie procedurali previste dall’art. 4, comma 1, Legge 300/1970, ovvero stipulare un accordo sindacale o ottenere un’autorizzazione amministrativa.
  • Prestare particolare attenzione ai tempi di conservazione dei dati, aderendo ai principi di limitazione della conservazione e minimizzazione dei dati, come ribadito dal Garante anche nel contesto dei metadati email (massimo 21 giorni per finalità meramente tecniche, salvo necessità specificamente motivate).
  • Effettuare una Valutazione d’Impatto sulla Protezione dei Dati (DPIA) prima di implementare trattamenti che presentino un rischio elevato, come il monitoraggio sistematico dei dipendenti.
  • Assicurarsi che gli accordi con i fornitori (responsabili del trattamento ai sensi dell’art. 28 GDPR) siano esaustivi e dettagliati, coprendo tutte le specifiche attività di trattamento svolte per conto del titolare.
  • Implementare misure tecniche e organizzative adeguate per garantire la sicurezza e la protezione dei dati, inclusi, se del caso, anonimizzazione, pseudonimizzazione e cifratura.
  • Mantenere procedure interne chiare e istruzioni documentate per il personale autorizzato al trattamento dei dati dei dipendenti.

Questa decisione rafforza l’importanza di un approccio proattivo e consapevole nella gestione della privacy in ambito lavorativo, suggerendo ai datori di lavoro di rivedere attentamente le proprie politiche e pratiche alla luce degli orientamenti del Garante e del quadro normativo vigente.


Giugno 2025