Archivio mensile Maggio 9, 2025

DiAnnamaria Palumbo

Il concetto di orario di lavoro secondo la normativa europea e italiana: Cassazione civile, Sezione Lavoro, 23 aprile 2025, n.10648

Nel panorama giuridico e lavorativo, il tema della definizione di “orario di lavoro” rappresenta un argomento di grande importanza, soprattutto in presenza di situazioni particolari come i turni di reperibilità. Recentemente, una sentenza della Corte di Cassazione (Cass. civ., Sez. Lav., 23 aprile 2025, n.10648) ha affrontato questa tematica, ribadendo principi fondamentali derivanti dalla normativa dell’Unione Europea e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha più volte ribadito che le nozioni di “orario di lavoro” e “periodo di riposo” si escludono reciprocamente. Secondo la direttiva 2003/88/CE, l’orario di lavoro comprende qualsiasi periodo in cui il lavoratore è al servizio del datore di lavoro, a disposizione dello stesso e nello svolgimento delle proprie attività o funzioni. Questo principio è stato confermato in diverse sentenze, tra cui quelle relative ai casi Simap, Jaeger, Ville de Nivelles e Radiotelevizija Slovenija.

Un aspetto rilevante riguarda i periodi di reperibilità. Se, durante tali periodi, il lavoratore è obbligato a rimanere fisicamente presente sul luogo indicato dal datore di lavoro, il tempo trascorso deve essere considerato orario di lavoro. Anche in assenza di attività lavorativa effettiva, l’obbligo di permanenza limita significativamente la libertà del lavoratore di gestire il proprio tempo libero, trasformando di fatto tale periodo in orario lavorativo.

Il caso specifico e i principi di diritto

Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, il ricorrente ha lamentato di essere stato obbligato a effettuare turni di pernottamento presso il luogo di lavoro, senza ricevere una retribuzione adeguata per il tempo trascorso in regime di reperibilità. La Corte d’Appello aveva ritenuto applicabile l’articolo 57 del CCNL delle cooperative sociali, che prevede un’indennità fissa mensile per i servizi di reperibilità, escludendo tali periodi dal computo dell’orario di lavoro.

Tuttavia, la Corte di Cassazione ha accolto le ragioni del ricorrente, chiarendo che, alla luce della normativa europea e dell’articolo 36 della Costituzione italiana, i periodi di reperibilità notturna presso il luogo di lavoro devono essere considerati orario di lavoro. Questo riconoscimento implica che tali periodi debbano essere retribuiti in modo proporzionato e dignitoso, in coerenza con i principi costituzionali di sufficienza e proporzionalità della retribuzione.

La sentenza sottolinea, inoltre, che la modalità di retribuzione dei periodi di guardia rientra nell’ambito delle disposizioni di diritto nazionale o della contrattazione collettiva. Tuttavia, il giudice è tenuto a valutare, anche d’ufficio, se le previsioni contrattuali rispettano i criteri costituzionali e normativi in materia di retribuzione.

La decisione rappresenta un punto di riferimento importante per garantire una maggiore tutela dei lavoratori in situazioni di reperibilità. Essa ribadisce che l’applicazione delle norme europee e nazionali deve avvenire in modo da rispettare la dignità e i diritti dei lavoratori, evitando interpretazioni restrittive che possano comprimere le tutele previste.

La Corte ha rinviato il caso alla Corte d’Appello in diversa composizione per un nuovo esame della fattispecie, invitando a considerare i principi di diritto enunciati. Questo passaggio evidenzia l’importanza di una corretta applicazione delle normative collettive, che devono essere orientate a garantire retribuzioni adeguate e proporzionate.

In conclusione, questa sentenza rappresenta un passo avanti nel riconoscimento dei diritti dei lavoratori, ponendo l’accento sulla necessità di un’applicazione rigorosa e coerente delle normative europee e nazionali. Si tratta di un richiamo forte per i datori di lavoro e le parti sociali, affinché si impegnino a garantire condizioni di lavoro eque e rispettose della dignità umana.

DiAnnamaria Palumbo

Il diritto di critica e la tutela del whistleblower nel contesto lavorativo: riflessioni su una recente sentenza (Cassazione civile sez. lav., 24/04/2025, n.10864)

Il caso in questione riguarda un dipendente che, opponendosi ad alcune modalità organizzative adottate dall’azienda durante il periodo pandemico, aveva espresso critiche ritenendo tali modalità non conformi ai protocolli di sicurezza anti-Covid. La vicenda aveva originato uno scambio di comunicazioni tra il lavoratore e l’amministrazione aziendale, culminando in una segnalazione al comitato anticovid interno. Il dipendente aveva giustificato il proprio operato richiamandosi al codice etico aziendale e al legittimo esercizio dell’attività di whistleblowing.

Ciò nonostante, l’azienda aveva contestato disciplinarmente tale condotta, giungendo al licenziamento del dipendente.

Un aspetto centrale del caso ha riguardato la qualificazione della condotta del dipendente come attività di whistleblowing. La normativa vigente tutela i lavoratori che segnalano, in buona fede e con modalità appropriate, comportamenti illeciti o in contrasto con il codice etico aziendale.

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento (Cass. Civ. Sez. Lav. n. 10864 del 24 aprile 2025) ha riconosciuto che la segnalazione del lavoratore al comitato anticovid era finalizzata a verificare il rispetto dei protocolli di sicurezza. Poiché il comportamento non presentava intenti lesivi né espressioni offensive gratuite, rientrava nell’ambito della legittima attività di whistleblowing, meritevole di protezione.

La Corte ha stabilito che il comportamento del dipendente, sebbene caratterizzato da toni accesi, era giustificato dall’intento di tutelare la sicurezza sul lavoro e di richiamare l’attenzione su possibili carenze aziendali. Non essendo emersi elementi di gratuità o volontà lesiva, la Corte ha accolto il ricorso, disponendo la reintegrazione del dipendente e il risarcimento del danno.

La Corte ha ribadito che il diritto di critica è sancito dalla Costituzione e da normative europee, come l’art. 21 della Costituzione italiana, l’art. 10 della CEDU e l’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Tuttavia, tale diritto non è illimitato e deve rispettare precisi criteri: continenza formale e sostanziale, pertinenza delle affermazioni e veridicità dei fatti.

È stato sottolineato che la critica, pur essendo espressione di dissenso, non può degenerare in un attacco gratuito e distruttivo all’onore e alla reputazione del destinatario. In ambito lavorativo, il diritto di critica è considerato legittimo se volto a salvaguardare interessi rilevanti, quali la sicurezza sul lavoro o il rispetto delle normative aziendali, e se esercitato con modalità rispettose e proporzionate.

Il caso evidenzia l’importanza di trovare un equilibrio tra il diritto di critica e la tutela del whistleblower, da un lato, e il rispetto dei rapporti lavorativi, dall’altro. La giurisprudenza sottolinea come la libertà di espressione debba essere esercitata con responsabilità, senza superare i limiti di continenza e pertinenza, ma al contempo riconosce l’esigenza di proteggere i lavoratori che, agendo in buona fede, segnalano situazioni critiche o potenzialmente pericolose.

DiAnnamaria Palumbo

Il diritto del figlio superstite maggiorenne inabile alla pensione di reversibilità: chiarimenti dalla Corte di Cassazione, ordinanza n. 11190 del 28 aprile 2025

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 11190 del 28 aprile 2025, ha fornito importanti chiarimenti in merito ai requisiti necessari per il riconoscimento della pensione di reversibilità al figlio superstite maggiorenne inabile, focalizzandosi in particolare sul concetto di “vivenza a carico” e sull’onere della prova.

La pensione di reversibilità: quadro normativo

La pensione di reversibilità è disciplinata dall’art. 13 del r.d.l. n. 636/1939, come modificato dall’art. 22 della legge n. 903/1965. Il beneficio spetta, in caso di decesso del pensionato, al coniuge e ai figli superstiti che, al momento della morte, non abbiano superato i 18 anni. Per i figli maggiorenni, il diritto si estende a coloro che siano riconosciuti inabili al lavoro e a carico del genitore deceduto.

Questa misura previdenziale è erogata in percentuale, secondo aliquote che tengono conto del rapporto di parentela, del numero di aventi diritto e della loro eventuale compresenza.

Il caso di specie

Nel caso esaminato, il figlio della pensionata defunta aveva richiesto il riconoscimento della pensione di reversibilità, vedendosi respingere la domanda in primo grado per mancanza di documentazione comprovante l’inabilità e la vivenza a carico. La Corte d’Appello, tuttavia, aveva disposto una consulenza tecnica d’ufficio (CTU) che aveva accertato l’inabilità del figlio al momento del decesso della madre. Inoltre, i giudici di secondo grado avevano considerato decisiva la percezione, da parte del figlio, di redditi inferiori al limite previsto per il diritto alla pensione di invalido civile, riconoscendogli il beneficio.

Il requisito della “vivenza a carico”

La Suprema Corte, nel ribadire il principio secondo cui il diritto alla pensione di reversibilità spetta al figlio superstite maggiorenne inabile e a carico del genitore al momento del decesso, ha chiarito cosa si intenda per “vivenza a carico”.

Richiamando la propria giurisprudenza consolidata (Cass. n. 9237/2018; Cass. n. 15041/2024; Cass. n. 23225/2024), la Corte ha stabilito che:

  • La vivenza a carico non implica necessariamente la convivenza materiale tra il genitore deceduto e il figlio inabile. La comune residenza può essere un elemento indicativo, ma non è condizione imprescindibile.
  • Non è richiesta una totale dipendenza economica, ma è necessario dimostrare che il genitore provvedeva al mantenimento del figlio in modo continuativo e prevalente.

Il mantenimento, quindi, deve essere costante e rappresentare una quota significativa del sostentamento del figlio, senza che sia necessaria la convivenza o una soggezione finanziaria assoluta.

L’onere della prova

La Corte ha sottolineato che spetta al figlio superstite l’onere di dimostrare i presupposti per il riconoscimento della pensione di reversibilità, ai sensi dell’art. 2697 c.c. Il giudice non può supplire alla mancanza di prove da parte del richiedente, se non nei limiti previsti dall’art. 421 c.p.c., ossia per integrare un quadro probatorio già delineato.

Nel caso di specie, la Suprema Corte ha rilevato che i giudici di secondo grado non avevano adeguatamente verificato se il reddito documentato dal figlio fosse sufficiente a coprire le sue esigenze di vita e se il sostentamento della madre fosse realmente prevalente. Inoltre, non era stato approfondito se il figlio ricevesse assistenza materiale da altre fonti, come un eventuale coniuge.

La decisione della Corte di Cassazione

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza della Corte d’Appello, rinviando la questione per un nuovo esame. I giudici di merito dovranno effettuare un accertamento rigoroso del requisito della vivenza a carico, valutando in modo puntuale le prove fornite dal richiedente.

Conclusioni

La pronuncia della Corte di Cassazione ribadisce la necessità di un’attenta verifica dei requisiti per il riconoscimento della pensione di reversibilità al figlio superstite maggiorenne inabile. Pur non essendo indispensabile la convivenza con il genitore defunto, è fondamentale dimostrare che il mantenimento fosse continuativo e prevalente. L’onere della prova ricade sul figlio richiedente, il quale deve fornire elementi sufficienti a comprovare il proprio diritto al beneficio.

DiAnnamaria Palumbo

La collaborazione lavorativa priva di progetto si converte ex lege in un rapporto di lavoro subordinato, Cassazione Civile, Sez. Lav., Ord. 26 aprile 2025

La Corte Suprema di Cassazione, con l’ordinanza n. 10969 del 26 aprile 2025, ha affrontato nuovamente il delicato tema della qualificazione giuridica dei rapporti di lavoro in assenza di un progetto specifico per le collaborazioni coordinate e continuative. La pronuncia si inserisce nell’ambito di un quadro normativo che mira a tutelare i lavoratori, garantendo loro i diritti previsti per il lavoro subordinato nei casi in cui manchi una chiara formalizzazione del rapporto collaborativo.

Il quadro normativo: l’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 276/2003

Secondo l’art. 69, comma 1, del Decreto Legislativo n. 276/2003, i contratti di collaborazione coordinata e continuativa privi di un progetto specifico si convertono automaticamente in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Tale conversione rappresenta una presunzione assoluta di subordinazione, finalizzata a contrastare abusi contrattuali e a garantire maggiore protezione ai lavoratori.

La disposizione normativa introduce una sanzione di tipo negoziale, che opera retroattivamente sin dalla costituzione del rapporto di collaborazione. Questo significa che, in assenza di un progetto, il rapporto di lavoro viene qualificato come subordinato, indipendentemente dalla natura autonoma o meno della prestazione lavorativa.

Il principio di corrispettività tra lavoro e retribuzione

La Corte, nella pronuncia in esame, ha ribadito il principio di corrispettività tra la prestazione lavorativa e la retribuzione, sottolineando che, anche per il periodo precedente alla conversione del rapporto, al lavoratore spettano eventuali differenze retributive. Queste devono essere calcolate sulla base dell’effettivo orario di lavoro svolto, garantendo così una tutela economica per il periodo di collaborazione.

In particolare, i giudici hanno chiarito che il datore di lavoro è obbligato a corrispondere al lavoratore tutte le somme dovute, anche nel caso in cui la collaborazione sia stata apparentemente configurata come autonoma. Tale obbligo si estende anche alla determinazione dell’imponibile previdenziale, che deve essere calcolato sulla base della retribuzione effettiva, purché non inferiore a determinati livelli minimi previsti dalla legge.

La sanzione della conversione e i suoi effetti

La conversione ex lege del contratto di collaborazione coordinata e continuativa in rapporto di lavoro subordinato non rappresenta una mera formalità, ma una sanzione normativa volta a tutelare il lavoratore. Questa tutela si esplica attraverso il riconoscimento dei diritti economici e normativi previsti per il lavoro subordinato, inclusi i contributi previdenziali e le tutele relative alla stabilità occupazionale.

La Corte ha inoltre evidenziato che la conversione retroattiva del rapporto non pregiudica il principio di reciprocità degli obblighi tra le parti: il lavoratore è tenuto a dimostrare l’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa, mentre il datore di lavoro deve garantire il pagamento delle differenze retributive eventualmente spettanti.

DiAnnamaria Palumbo

Licenziamento e legittimità dei controlli difensivi, Cassazione, Sez. Lav., 24 aprile 2025 n. 10822

La vicenda trae origine dal licenziamento, avvenuto il 1 settembre 2022, di una lavoratrice, M.V., quadro del CCNL Tessile Abbigliamento Moda e responsabile dello showroom commerciale di Milano. La lavoratrice era stata accusata di sottrazione di beni aziendali, sulla base di un’indagine interna condotta da un collega e supportata da immagini registrate da impianti audiovisivi.

Il Tribunale di Milano, nella fase sommaria del giudizio ex art. 1, comma 51, L. n. 92/2012, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento, ordinando la reintegra della lavoratrice e il pagamento di un’indennità risarcitoria. Tale decisione era stata confermata dalla Corte d’Appello di Milano, che aveva respinto il reclamo della società datrice di lavoro, rilevando l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione della normativa sulla privacy e sulla dignità del lavoratore.

La società datrice di lavoro ha impugnato la sentenza d’appello, proponendo cinque motivi di ricorso. Tra le questioni sollevate rilevano:

  1. La presunta violazione degli articoli 2696, 2729 e 2119 del codice civile, con riferimento all’onere della prova e alla valutazione delle sommarie informazioni assunte in sede penale.
  2. La contestazione dell’interpretazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970) in relazione ai controlli tramite telecamere.
  3. La dedotta violazione della normativa sulla privacy e della tutela della dignità della lavoratrice, a seguito di un’indagine personale condotta dal collega M.M. sulla borsa della dipendente.
  4. La mancata ammissione di prove tardivamente prodotte dalla società, tra cui l’informativa sull’uso delle telecamere.
  5. La valutazione di inattendibilità della testimonianza del collega M., ritenuta decisiva per la ricostruzione dei fatti.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, dichiarandolo inammissibile. Nella sua articolata motivazione, la Corte ha ribadito principi consolidati in tema di:

  • Onere della prova: Non è configurabile una violazione dell’art. 2697 c.c. se il giudice ha correttamente attribuito l’onere probatorio alla parte tenuta a fornirlo. Nel caso di specie, la società non ha dimostrato adeguatamente gli addebiti contestati alla lavoratrice.
  • Controlli difensivi: La Corte ha sottolineato che i controlli difensivi, per essere legittimi, devono fondarsi su un “fondato sospetto” di comportamenti illeciti, accompagnato da una rigorosa osservanza degli adempimenti previsti dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Nel caso in esame, tali presupposti non risultavano soddisfatti, poiché i controlli erano stati attivati sulla base di un mero “convincimento soggettivo” del collega M.M.
  • Tutela della privacy: La perquisizione della borsa della lavoratrice, effettuata senza il suo consenso e in violazione della normativa sulla privacy, è stata giudicata illegittima. La Corte ha richiamato il principio per cui ogni controllo deve rispettare la dignità e i diritti fondamentali del dipendente.
  • Inattendibilità delle prove: Le immagini registrate dagli impianti audiovisivi sono state ritenute inutilizzabili, non essendo stato dimostrato che la lavoratrice fosse stata adeguatamente informata delle modalità di utilizzo degli impianti, come richiesto dal D.Lgs. 196/2003. Inoltre, le incongruenze nelle dichiarazioni del teste M. hanno ulteriormente compromesso l’attendibilità delle prove raccolte.

In conclusione, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Milano, evidenziando l’inadeguatezza della prova offerta dalla società datrice di lavoro per giustificare il licenziamento per giusta causa. Il ricorso è stato quindi dichiarato inammissibile, con condanna della società al pagamento delle spese processuali.

Questa pronuncia ribadisce l’importanza di un rigoroso rispetto delle norme in tema di controlli difensivi e di tutela della privacy dei lavoratori. Le aziende devono garantire che ogni attività di monitoraggio sia conforme alla legge, evitando di compromettere i diritti fondamentali dei dipendenti. Allo stesso tempo, la decisione sottolinea il ruolo cruciale del giudice di merito nella valutazione delle prove, che difficilmente può essere messa in discussione in sede di legittimità.

DiAnnamaria Palumbo

Benvenuti al nostro primo podcast: un nuovo inizio per il blog!

Siamo entusiasti di annunciare il lancio della nostra nuova sezione dedicata ai podcast. Questo progetto nasce dalla volontà di offrire un’esperienza ancora più coinvolgente, permettendovi di approfondire i temi che trattiamo sul blog in un formato dinamico e accessibile.

Nel nostro primo episodio, abbiamo deciso di partire dall’articolo di oggi, 2 maggio 2025, dedicato ai comportamenti extralavorativi di rilevanza penale e dunque all’ordinanza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, del 23 aprile 2025 n. 10612.

Il formato audio ci permette di avvicinarci a voi in modo diverso, accompagnandovi nelle vostre giornate che sia durante un viaggio, una pausa caffè o una sessione di allenamento. Crediamo che questa forma di comunicazione possa arricchire ulteriormente la nostra community, rendendola più interattiva e partecipativa.

Non vediamo l’ora di sapere cosa ne pensate: i vostri feedback saranno fondamentali per aiutarci a migliorare e a rendere questa sezione sempre più interessante e su misura per voi.

Il nostro primo episodio è già disponibile: cliccate sul player qui sotto per ascoltarlo e fateci sapere le vostre impressioni nei commenti o sui nostri canali social.

Grazie per essere parte di questa nuova avventura. Buon ascolto!

DiAnnamaria Palumbo

Valutazione dei comportamenti extralavorativi penalmente rilevanti nel rapporto di lavoro, Cassazione, Sezione Lavoro, ord. 23 aprile 2025, n. 10612

Il caso in esame pone l’accento su un tema delicato: la valutazione dell’incidenza di comportamenti extralavorativi penalmente rilevanti sul rapporto di lavoro, con particolare riferimento al principio di presunzione di innocenza e alla tutela contrattuale del lavoratore.

La vicenda trae origine dal licenziamento di un lavoratore, C.R., coinvolto in un procedimento penale per reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. La società datrice di lavoro aveva adottato il provvedimento di licenziamento sulla base della gravità delle accuse mosse al dipendente e del potenziale discredito arrecato all’azienda.

Il Tribunale di Cassino aveva inizialmente annullato il licenziamento, ritenendo insussistente la giusta causa e disponendo la reintegrazione attenuata del lavoratore ai sensi dell’art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori. La decisione era stata confermata in appello, ma successivamente cassata dalla Suprema Corte (sentenza n. 19263/2019), che aveva rinviato la questione alla Corte d’Appello di Roma per una nuova valutazione. In sede di rinvio, la Corte d’Appello aveva invece riconosciuto la legittimità del licenziamento per giusta causa, decisione impugnata dal lavoratore dinanzi alla Cassazione.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 10612/2025, ha rigettato il ricorso del lavoratore, affrontando una serie di questioni centrali per la materia del licenziamento per giusta causa:

  1. Il licenziamento per giusta causa e il principio di presunzione di innocenza
    La Corte ha ribadito che il principio di presunzione di innocenza, previsto in ambito penale, non si applica automaticamente al rapporto di lavoro. Ai fini della legittimità del licenziamento, è sufficiente che i fatti contestati siano di gravità tale da compromettere il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e dipendente, senza necessità di una condanna penale definitiva.
  2. La valutazione della condotta extragiudiziale
    La Corte ha sottolineato che il comportamento extralavorativo del lavoratore può rilevare ai fini disciplinari se idoneo a minare la fiducia del datore di lavoro. Nel caso in esame, la gravità dei fatti contestati, l’abitualità dello spaccio e il coinvolgimento del dipendente in un’organizzazione criminale hanno giustificato il recesso senza necessità di attendere una sentenza penale definitiva.
  3. La contestazione disciplinare per relationem
    È stata considerata legittima la contestazione disciplinare per relationem, ossia mediante il richiamo a provvedimenti giudiziari noti al lavoratore, purché tali richiami siano sufficientemente specifici da consentire la piena difesa dello stesso.
  4. I poteri istruttori del Giudice del lavoro
    La sentenza ha ribadito il ruolo attivo del giudice del lavoro nel completamento dell’istruttoria, anche in sede di rinvio, al fine di valutare tutti gli elementi probatori necessari per accertare la giusta causa di licenziamento.

In breve, la pronuncia chiarisce due principi fondamentali in tema di giusta causa di licenziamento, con particolare riferimento al delicato equilibrio tra tutela del lavoratore e interessi dell’impresa.

  • La possibilità per il datore di lavoro di adottare il licenziamento anche in assenza di una condanna definitiva, purché la condotta contestata sia adeguatamente provata e connotata da una gravità tale da compromettere il rapporto fiduciario.
  • L’importanza della specificità nella contestazione disciplinare, che deve garantire al lavoratore il pieno esercizio del diritto di difesa.